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«Piuttosto, stai attento agli uragani. Pare che saranno i protagonisti dell’autunno.»

«Papà, sul serio la mia decisione non ti pesa?»

«E perché dovrebbe? Volevi che mi mettessi a litigare? Che tentassi di farti cambiare idea? Se proprio ci tieni, ci posso provare, ma so che cosa avrebbe detto tua madre: ‘Se è abbastanza cresciuto per comperarsi una birra, è pure in grado di scegliersi la vita che preferisce’.»

Sorrisi. «Sì, sembri lei.»

«In quanto a me, mi spiacerebbe se ritornassi all’università passando tutto il tempo a fantasticare sulla ragazza e fregandotene dei voti. Se verniciare giostre o aggiustare chioschi ti aiuterà a dimenticarla, non potrà che essere un bene. Però, come te la caverai con prestiti e borsa di studio, quando deciderai di fare marcia indietro nell’autunno del 1974?»

«Nessun problema. Una media del trenta e lode apre molte porte.»

«La ragazza…» pronunciò mio padre con sommo disgusto, per poi passare ad altri argomenti.

Papà non aveva torto: ero ancora triste e depresso per la fine della storia con Wendy, ma avevo iniziato il tortuoso percorso dalla negazione all’accettazione (o «il viaggio», secondo l’attuale definizione cara ai gruppi di sostegno). La vera serenità era ancora di là da venire, ma non credevo più fosse impossibile da conquistare, come durante le lunghe, difficili notti e le dure giornate di giugno.

La scelta di restare a Joyland dipendeva anche da altri fattori che avevo quasi paura a mettere in ordine, raggruppati com’erano in un mucchio caotico e confuso tenuto insieme soltanto da vaghe intuizioni. Hallie Stansfield ne faceva sicuramente parte. E Bradley Easterbrook, quando all’inizio dell’estate aveva proclamato: Noi vendiamo divertimento.E il suono dell’oceano di notte, e la forte brezza dal largo che soffiava tra i montanti della ruota sprigionando una strana melodia. E le fresche gallerie sotto il parco. E la Parlata, quella lingua segreta che verso Natale il resto dei pivelli avrebbe già scordato. Io non ero intenzionato a dimenticarne le ricche sfumature. Sentivo che Joyland aveva altro da darmi, non sapevo esattamente ancora che cosa.

Può sembrare strano, e sono ritornato sui ricordi di quei giorni per essere certo di non avere preso un abbaglio, ma la mia decisione fu soprattutto determinata da un particolare: al nostro san Tommaso era apparsa Linda Gray. Un avvenimento che lo aveva trasformato in modo sottile ma fondamentale. Non penso che un simile cambiamento rientrasse tra i progetti di Tom, però sicuramente faceva parte dei miei.

Anch’io volevo vederla.

Durante la seconda metà di agosto, molti dipendenti di vecchia data come Pop Allen o Dottie Lassen mi invitarono a pregare che la festa del Lavoro fosse un giorno di pioggia. Non fu così e, tempo di sabato pomeriggio, compresi il significato della loro supplica. I frollocconi arrivarono in massa per il gran finale e Joyland si ritrovò svariatissima. Per di più, mancavano metà dei lavoranti stagionali, ormai ritornati alle loro varie università. I pochi rimasti si ammazzarono di fatica.

Alcuni di noi lavorarono letteralmente comecani, con particolare riferimento a un pastore tedesco di nostra conoscenza. Passai la maggior parte del fine settimana osservando la folla attraverso la reticella della maschera del Simpatico Howie. La domenica mi tuffai dentro quella dannata tuta pelosa almeno una decina di volte. Dopo la penultima esibizione, mi trovavo oltre metà del Corso sotto la Passeggiata di Joyland quando il mondo circostante cominciò a tremolare e svanire in mille ombre grigie. Come l’ombra di Linda Gray.

Ero alla guida di un trabiccolo elettrico di servizio, il costume abbassato fino alla cintola per sentire il refrigerio dell’aria condizionata sul torace sudato; quando mi accorsi che stavo per svenire, ebbi l’accortezza di fermarmi accanto alla parete della galleria e di togliere il piede dal pulsante di gomma che fungeva da acceleratore. Wally «Ciccia» Schmidt, che gestiva il baraccone dell’indovina-il-peso, si stava concedendo un riposino nel pulciaio. Mi vide parcheggiato di lato e accasciato sopra il volante. Tirò fuori una caraffa di acqua ghiacchiata dal frigorifero, mi raggiunse ballonzolando e mi sollevò il mento con una mano paffuta.

«Ehi, pivello, hai un altro costume o è il solo della tua taglia?»

«Sce n’è un scecondo.» Parevo ubriaco. «In sciartoria. Essshtra large.»

«Grandioso!» esclamò, rovesciandomi in testa la brocca. Il mio grido di sorpresa riecheggiò lungo il passaggio, facendo accorrere parecchie persone.

«Ma che cazzo ti è saltato in mente, Wally Ciccia?»

«È servito o no a svegliarti?» ghignò lui. «È il fine settimana della festa del Lavoro, pivello. Quindi, devi lavorare invece di dormire. Ringrazia la tua buona stella che là fuori non ci siano quarantacinque gradi.»

Se la temperatura fosse stata così alta, non avrei mai potuto raccontarvi la mia storia. Mi si sarebbe abbrustolito il cervello e avrei tirato le cuoia nel bel mezzo di un’allegra danza sul palco del teatrino della Borgata Incantata. Fortunatamente la giornata era nuvolosa e rinfrescata da una dolce brezza marina; in un modo o nell’altro, me la cavai.

Il lunedì, verso le quattro del pomeriggio, Tom fece capolino in sartoria mentre mi stavo infilando il costume di riserva per l’ultimo spettacolo della stagione. Non portava più il cancappello o le sue lerce scarpe da ginnastica, ma una camicia con lo stemma del college infilata dentro i calzoni di tela perfettamente stirati (ma dove diavolo li teneva?) e un paio di eleganti mocassini. Quel fottuto sbarbatello si era persino fatto tagliare i capelli. Dalla testa ai piedi, sembrava il classico studente universitario di successo pronto a sfidare il mondo degli affari. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che fino a due giorni prima aveva sfoggiato dei Levi’s luridi, mostrando uno spicchio di culo mentre strisciava sotto il Lampo con una tanica d’olio maledicendo Pop Allen, il nostro impavido caposquadra, ogni volta che sbatteva la testa contro una trave di sostegno.

«Pronto a tagliare la corda?» gli domandai.

«Sicuro come l’oro, amico mio. Prenderò il treno per Filadelfia delle otto di domattina. Una settimana a casetta e poi si torna a sgobbare.»

«Sono contento per te.»

«Erin deve ancora sbrigare qualche cosuccia, ma ci vedremo stasera a Wilmington. Ho prenotato una stanza in una pensioncina molto graziosa.»

A quella frase, venni colto da una punta di gelosia. «Stupendo.»

«Lei è davvero fantastica.»

«Lo so.»

«Pure tu lo sei, Dev. Non perdiamoci di vista. Tanti lo dicono senza pensarlo sul serio, a differenza di me. Noi resteremoin contatto.» Mi tese la mano.

Gliela strinsi. «Assolutamente sì. Sei un tipo a posto, Tom, ed Erin è la fine del mondo. Prenditi cura di lei.»

«Poco ma sicuro», rispose con un largo sorriso. «Si trasferirà alla Rutgers in primavera. Le ho già insegnato l’inno della squadra di football, gli Scarlet Knights. ‘Forza rossi, forza rossi…’»

«Molto complicato.»

Scosse l’indice, quasi ad ammonirmi. «Il sarcasmo non ti porterà da nessuna parte, ragazzo mio. A meno di non puntare a un impiego in una rivista umoristica.»

«Sbrigatevi con i saluti e asciugatevi le lacrime», strillò Dottie Lassen. «Hai uno spettacolo che ti aspetta, Jonesy.»

Tom si voltò verso di lei, allargando le braccia. «Dottie, ti adoro! Quanto mi mancherai!»

La donna si sferrò un pacca sul sedere per dimostrare la propria commozione, tornando a rabberciare un costume.

Tom mi passò un foglio. «Il mio indirizzo di casa, il mio recapito all’università, e i numeri telefonici di entrambi. Mi auguro li userai.»

«Certo.»

«Sul serio ti fermerai qui un anno a scartavetrare i chioschi, piuttosto che dedicarlo a bere e a scopare?»

«Eggià.»

«Ma sei matto?»

Ci riflettei sopra. «Forse sì. Un po’. Però sto migliorando.»