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Lane e Fortuna - quel giorno era gitana dalla testa ai piedi - stavano chiacchierando vicino ai comandi della ruota panoramica. Lui mi scorse e girò la bombetta in senso antiorario: il suo modo di salutarmi.

«Ma guarda un po’ chi c’è», esordì. «Come ti butta, Jonesy?»

«Bene», risposi, pur trattandosi di una mezza verità. Da quando indossavo la pelliccia solo tre o quattro volte al giorno, mi era tornata l’insonnia. Restavo sdraiato a letto scandendo il passare delle ore, la finestra aperta per ascoltare il rumore della risacca, pensando a Wendy e al suo nuovo fidanzato. E anche alla ragazza che Tom aveva visto di fianco alla monorotaia del Castello del Brivido, nella galleria di mattoni finti tra le Segrete e la Sala delle Torture.

Mi voltai verso Fortuna. «Posso parlarti?»

Non mi chiese il motivo e mi trascinò verso il suo baraccone, scostando la tenda viola dell’entrata e facendomi accomodare. Al centro, un tavolo rotondo con una tovaglia rosa confetto. Sopra, la sua palla di cristallo, nascosta sotto uno scampolo di tessuto. Due normalissime sedie pieghevoli erano disposte in modo che l’indovina e il suo cliente trepidante si trovassero faccia a faccia, separati solo dalla sfera (che sapevo essere illuminata alla base da una piccola lampada, azionata da Fortuna con un movimento del piede). Sulla parete in fondo, la gigantesca serigrafia del palmo di una mano con le dita divaricate e, chiaramente indicate, le Sette Linee: vita, cuore, testa, amore (o Cintura di Venere), sole, destino, salute.

Madame Fortuna raccolse gli strati di gonne e si sedette. Con un gesto mi invitò a imitarla. Non scoprì la palla né mi pregò di passarle una moneta sul palmo per farmi predire il futuro.

«Chiedimi ciò per cui sei venuto», esordì.

«Riguardo alla bambina, hai tirato a indovinare o lo sapevi davvero? L’hai visto nella tua mente?»

Mi scrutò a lungo e a fondo. Lì dentro, invece del pesante odore di popcorn e frittelle, aleggiava un vago profumo d’incenso. Le pareti erano sottili come carta velina, ma la musica, il chiacchiericcio dei frollocconi e il frastuono delle giostre sembravano lontani anni luce. Non riuscivo ad abbassare lo sguardo, neanche sforzandomi.

«Insomma, vuoi sapere se sono un’imbrogliona. Non è così?»

«Io… onestamente, non ho idea di quello che voglio.»

Mi rispose con un sorriso gentile, quasi avessi superato una specie di prova. «Sei un bravo ragazzo, Jonesy, ma anche un bugiardo matricolato.»

Feci per ribatterle, ma mi zittì con un cenno della mano destra coperta di pesanti anelli. Tirò fuori da sotto il tavolo una cassetta di metallo. Le sue prestazioni erano gratuite (comprese nel vostro biglietto d’ingresso, signore e signori, fanciulli e fanciulle) ma le mance erano ben accolte e ammesse anche dalla legge nella Carolina del Nord. Quando aprì la cassetta, notai un rotolo di banconote spiegazzate, quasi tutte da un dollaro, qualcosa che somigliava in modo sospetto al biglietto di una lotteria istantanea (proibitanell’intera Carolina del Nord) e una piccola busta. Me la porse. Dopo un attimo di esitazione, l’accettai.

«Oggi non sei arrivato a Joyland solo per domandarmi questo», affermò.

«Be’…»

Mi interruppe con un ennesimo gesto della mano. «Sai perfettamenteciò che vuoi. Per il tempo che ti resta, almeno. E visto che noi tutti non abbiamo altro, chi saranno mai Fortuna o Rozzie Gold per spingerti a cambiare idea? Adesso vai. Fai quello per cui sei venuto. Una volta finito, apri la busta e leggi il mio messaggio.» Mi lanciò un sorriso. «Ai colleghi non chiedo un soldo. Soprattutto non ai bravi ragazzi come te.»

«Io non…»

Si alzò tra lo svolazzare delle gonne e lo sbatacchiare della chincaglieria. «Va’, Jonesy. Non abbiamo altro da dirci.»

Uscii dal suo bugigattolo con la testa confusa. La musica di decine di chioschi e attrazioni mi colpì con la potenza di una folata di vento, mentre il sole mi picchiava in testa. Puntai direttamente all’ufficio dell’amministrazione, ospitato in un doppio caravan. Bussai anche se non ce ne sarebbe stato bisogno, entrai e salutai Brenda Rafferty, impegnata a fare la spola tra un registro contabile spalancato su un tavolo e la sua fida calcolatrice.

«Ciao, Devin. Ti stai prendendo cura della tua Sirena?»

«Sì, signora. Tutti badiamo a lei.»

«Dana Elkhart, giusto?»

«Erin Cook.»

«Erin, certo. Della Squadra Bracchetto. La rossa. Come posso aiutarti?»

«Se non rischio di importunarlo, mi piacerebbe parlare con il signor Easterbrook.»

«Sta riposando e non mi va di disturbarlo. Prima ha dovuto fare un mare di telefonate, e non sono ancora finite, anche se mi dispiace ricordarglielo. Ultimamente si stanca con facilità.»

«Non ci metterei molto.»

«Potrei controllare se è sveglio», sospirò. «Di che si tratta?»

«Di un favore. Lui capirà.»

E in effetti capì. Mi pose solo due domande. La prima, se ne fossi sicuro. Risposi di sì. E la seconda…

«L’hai già detto ai tuoi genitori, Jonesy?»

«Siamo solo mio padre e io. Gliene parlerò stasera.»

«Benissimo, allora. Informa Brenda prima di andartene. Preparerà tutti i documenti necessari, che dovrai compilare e…» Si interruppe, spalancando la bocca in un enorme, titanico sbadiglio, sfoggiando i denti da cavallo. «Scusami, figliolo. È stata una giornata massacrante. Un’ estatemassacrante.»

«Grazie, signor Easterbrook.»

Rispose con un cenno della mano, come a sottolineare che era una sciocchezza. «Prego. Sono sicuro che ti rivelerai un ottimo acquisto, ma mi dispiacerebbe se agissi senza il consenso di tuo padre. Per favore, quando esci ricordati di chiudere la porta.»

Mi sforzai di ignorare l’espressione accigliata di Brenda mentre frugava nei suoi classificatori, tirando fuori i vari moduli richiesti dalla Joyland Incorporated per l’assunzione a tempo pieno. Ciò nonostante, mi accorsi lo stesso della sua totale disapprovazione. Piegai i documenti, li infilai nella tasca posteriore dei jeans e scappai via.

In fondo al cortiletto, oltre la fila dei cacatanto, si stendeva un boschetto. Mi sedetti appoggiando la schiena a uno dei tronchi e aprii la busta consegnatami da Madame Fortuna. Il messaggio era breve e conciso.

Stai andando dal signor Easterbrook per chiedergli di continuare a lavorare al parco dopo la festa del Lavoro. Sei certo che accetterà.

Aveva ragione. Volevo sapere se era un’imbrogliona. Ecco la sua risposta. E, sì, ormai avevo preso una decisione sul mio futuro. Fortuna aveva azzeccato pure quel particolare.

Ma restava un’ultima riga.

Hai salvato la bambina ma, ragazzo mio, non potrai salvare tutti.

Dopo aver rivelato a papà che non sarei ritornato all’UNH, prendendomi un anno di pausa dal college e passandolo a Joyland, ci fu un lungo silenzio dall’altro capo del filo, lassù nel Maine meridionale. Temevo che mi avrebbe urlato contro, ma mi sbagliavo. Mi sembrò soltanto stanco. «È colpa della ragazza?»

Circa due mesi prima gli avevo confessato che Wendy e io avevamo scelto di non vederci per un po’, ma lui aveva intuito la verità. Da quel momento in avanti, non l’aveva più chiamata per nome durante le nostre conversazioni telefoniche settimanali, citandola come «la ragazza». Dopo un paio di volte, quasi per scherzo, commentai: «La ragazza chi? Quella strana ragazza?» ma la battuta fu accolta dal gelo. Mi astenni dal riprovarci.

«C’entra anche Wendy, ma non solo», ammisi. «Voglio prendermi del tempo per me e tirare il fiato. E poi questo posto comincia a piacermi.»

«Forse hai davvero bisogno di uno stacco», sospirò. «Almeno lavorerai, invece di girare l’Europa in autostop come la figlia di Dewey Michaud. Quattordici mesi e passa negli ostelli della gioventù! Tornerà a casa con la tigna e una pagnotta in forno.»

«Be’, con un minimo di fortuna credo che eviterò entrambi i rischi.»