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«Lascia perdere i dettagli folcloristici e vieni al punto», intervenne Tom. «Hai tirato su qualche dollaro?»

Stavo pensando, non senza una punta di orrore, che la bambina così felice di pronunciare con somma reverenza i nomi delle celebrità aveva rischiato di finire in coma irreversibile. O dritta in una bara. Distratto da simili ragionamenti, risposi con onestà. «Il padre mi ha offerto cinquecento dollari, ma non li ho accettati.»

Tom sgranò gli occhi. « Che cosa?»

Abbassai lo sguardo sui rimasugli del biscotto farcito che stringevo in mano. La toffoletta mi stava colando tra le dita. Lo gettai tra le braci. Non avevo più fame. Mi seccava sentirmi imbarazzato. «Quel tizio ha appena messo in piedi una piccola attività e, a giudicare dalle sue parole, potrebbe andare incontro a un successo come a un fallimento. Ha anche una moglie e una bambina, più un secondo figlio in arrivo. Secondo me non poteva permettersi di buttare via dei soldi.»

«Ma davvero?E a tenon pensi?»

Rimasi perplesso. «A me?»

Dopo tutto il tempo che è passato, non sono ancora sicuro se Tom stesse fingendo o fosse veramente arrabbiato. Probabilmente aveva iniziato burlandosi di me, per poi infervorarsi quando si era reso conto di che cosa avevo fatto. Non sapevo come fosse messa la sua famiglia, ma lui non aveva risparmi da parte ed era senza macchina. Quando voleva uscire con Erin, prendeva in prestito la mia, scrupoloso nel pagare la benzina che aveva consumato. Per lui il denaro era importante, certo, ma non ne era schiavo.

«Frequenti l’università per miracolo, come Erin e me, e l’impiego a Joyland non arricchirà nessuno di noi. Che diavolo hai nel cervello? Da piccolo sei caduto dal seggiolone e ti sei rinscemito?»

«Ehi, calmati», intervenne Erin.

Tom non le diede retta. «Muori dalla voglia di passare il prossimo semestre autunnale svegliandoti all’alba per raccattare dal nastro trasportatore della mensa i piatti sporchi della colazione? Evidentemente sì, visto che per questo lavoro alla Rutgers ti pagano circa cinquecento dollari a semestre. Lo so perché l’ho controllato, prima di avere il culo di trovare qualcuno a cui dare ripetizioni. Hai idea di come sono riuscito a sopravvivere da matricola? Scrivendo tesine per ricchi membri di confraternite, pronti a specializzarsi in birrologia avanzata. Se fossi stato scoperto, mi avrebbero sospeso o espulso su due piedi. Te lo dico io cosa ci hai guadagnato: venti ore di lavoro alla settimana che ti potevano servire per studiare.» Si rese conto che stava esagerando e si fermò, sfoderando un sorriso. «O per rimorchiare flessuose fanciulle.»

«Ti fletto io!» esclamò Erin, balzandogli addosso.

I due rotolarono sulla sabbia, con lei che gli faceva il solletico e lui che le gridava di togliersi di dosso, senza troppa convinzione. Meglio così, perché non mi andava di affrontare gli argomenti sollevati da Tom. A quanto pareva, in merito a certe faccende avevo già fatto le mie scelte, e al mio cervello non restava che prenderne atto.

Il giorno dopo, alle tre e un quarto, ci trovavamo in coda per il Castello del Brivido, di cui si stava occupando un certo Brady Waterman. Ricordo ancora il nome perché era bravo a interpretare Howie… pur non eguagliando il sottoscritto, aggiungo per amore di verità. Piuttosto in carne all’inizio dell’estate, ormai era un vero figurino. Come dieta dimagrante, indossare la pelliccia era mille volte meglio della Weight Watchers.

«Che ci fate qui?» domandò. «Non è il vostro giorno libero?»

«Non potevamo lasciarci sfuggire la sola e unica attrazione al buio di Joyland», rispose Tom. «Già percepisco un forte senso di unità drammatica: Brad Waterman e il Castello del Brivido. Un connubio perfetto.»

L’altro aggrottò la fronte. «E avete in mente di stiparvi in un solo vagone?»

«Siamo obbligati», replicò Erin. Poi si avvicinò a una delle orecchie a sventola del ragazzo, sussurrando: «È una scommessa».

Mentre ci rifletteva sopra, Brad si toccò il labbro superiore con la punta della lingua. Sentivo le rotelle girargli in testa.

Il tipo dietro di noi alzò la voce. «Mi fate il piacere di darvi una mossa? Dentro c’è l’aria condizionata e io sto crepando di caldo.»

«Forza. Rompete le righe ma non le palle.» Provenendo da Brad, era quasi un’arguzia.

«Ci sono i fantasmi?» gli chiesi.

«Centinaia e centinaia. Spero che ti volino tutti su per il culo.»

Partimmo dal Labirinto di Mysterio, fermandoci ogni tanto a vedere i nostri riflessi allungati o accorciati. Dopo un paio di risatine forzate, ci impegnammo a seguire i puntini rossi al fondo di certi specchi, raggiungendo direttamente il Museo delle Cere. Grazie a quella mappa segreta, arrivammo molto prima del resto del nostro gruppo, che vagava sperso, sghignazzando e sbattendo contro i vetri disposti ad angolo.

Con sommo dispiacere di Tom, nel museo non c’erano pazzi assassini, solo politici e celebrità. Ai lati dell’entrata, un John Fitzgerald Kennedy dal sorriso smagliante e un Elvis Presley in tuta aderente. Senza dare peso al cartello che intimava: NON TOCCARE, Erin sfiorò la chitarra del Re. «È scorda…» iniziò a dire, per poi scattare indietro quando il manichino si animò cominciando a cantare Can’t Help Falling in Love.

«Ci sei cascata!» ridacchiò Tom, abbracciandola.

Una porta alla fine del museo conduceva alla Stanza della Botte e del Ponte, dove regnavano il frastuono di ingranaggi che sembravano pericolosi (non lo erano affatto) e il bagliore intermittente di variopinte luci stroboscopiche. Erin passò dall’altra parte superando il Ponte del Troll, scosceso e traballante, mentre noi due fustacchioni sfidammo la Botte. Arrancai fino al lato opposto barcollando peggio di un ubriacone, ma cadendo una volta sola. Tom si fermò a metà, allungò mani e piedi fino a toccare le pareti - sembrava una bambolina di carta - e si fece un giro di trecentosessanta gradi.

«Smettila, scemo, o ti spaccherai la testa!» gli gridò Erin.

«Anche se dovesse cadere, l’interno è imbottito», la rincuorai.

Tom ci raggiunse, paonazzo e con le labbra allargate in un ghigno. «Mi si sono rimessi in moto neuroni che giacevano addormentati da quando avevo tre anni.»

«Certo, ma che mi racconti di tutti quelli uccisi?» ribatté Erin.

Dopo c’era la Stanza Inclinata e poco oltre una sala piena di ragazzini impegnati con il flipper o le boccette. Erin fissò il secondo gioco per un po’, le braccia conserte e un’espressione contrariata in volto. «Non capiscono che è uno spennapolli?»

«La gente viene qui per farsi spennare», risposi. «Fa parte del divertimento.»

«E io credevo che il cinico fosse Tom», sospirò.

In fondo alla sala, sotto un teschio verde fluorescente, un cartello con la scritta: IL CASTELLO DEL BRIVIDO VI ASPETTA! ATTENZIONE! PER LE DONNE INCINTE E I GENITORI CON BAMBINI PICCOLI, L’USCITA SI TROVA A SINISTRA.

Ci spostammo in un atrio dove riecheggiavano urla e risate registrate. Una luce intermittente rossa illuminava una monorotaia d’acciaio che puntava verso l’imboccatura buia di una galleria. Dall’interno arrivavano brontolii minacciosi, lampi accecanti e altre grida. Quelle erano vere, e dall’esterno non sembravano neanche divertite, ma forse lo erano. Alcune, perlomeno.

Ci venne incontro Eddie Parks, responsabile dell’attrazione e caposquadra dei Dobermann. Portava un paio di guanti di cuoio e un cancappello così vecchio da essere completamente stinto (si colorava però di rosso sangue ogni volta che si azionavano le lampade). Ci guardò con disinteresse, tirando su con il naso. «Doveva essere una gran palla, la vostra giornata libera.»

«Volevamo vedere come vivono quelli meno fortunati di noi», replicò Tom.

Erin sfoderò per l’occasione il suo sorriso più smagliante. Eddie rimase impassibile.

«Tutti e tre in un solo vagoncino, vero?»