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Mi venne voglia di fargli notare che Pop, prima della sua partenza, mi aveva informato che sarebbe stato Lane Hardy a controllare i miei orari, ma preferii tenere le labbra cucite. Sarebbe stato stupido peggiorare un rapporto che già andava male. Tanto, era chiaro perché non piacessi a Parks: a lui non andava a genio nessuno. Mi sarei rivolto a Lane solo se Eddie avesse esagerato, ma come ultima possibilità. Mio padre mi aveva dimostrato con la solidità dei fatti che se un uomo vuole essere padrone della propria vita, deve cavarsi dagli impicci senza l’aiuto altrui.

«Di che cosa hai bisogno, Parks?»

«Di tutto e di più. Per prima cosa, schizza giù in magazzino a prendere un barattolo di cera per auto, senza perdere tempo a cazzeggiare con i tuoi amichetti. Poi, corri dentro il Castello e lucida ogni vettura.» Poco ci mancò che dicesse vetturaaa.«Lo facciamo ogni fine stagione.»

«Non ne avevo idea.»

«Gesù Cristo, quanto odio voi pivelli.» Schiacciò il mozzicone con il piede, sollevò di un paio di centimetri la cassetta della frutta e ce lo buttò sotto, probabilmente credendo di farlo scomparire per sempre. «Olio di gomito, bamboccio, o dovrai ricominciare da capo. Capito?»

«Capito.»

«Meglio per te.» Si infilò un’altra sigaretta nella boccaccia, frugandosi nelle tasche dei pantaloni alla ricerca dell’accendino. Con i guanti addosso, ci impiegò un po’. Alla fine lo trovò, lo aprì con uno scatto del polso e poi si bloccò di colpo. «Che hai da guardare?»

«Niente.»

«Allora sbrigati. Accendi i riflettori o non ci vedrai una sega. Sai dove sono gli interruttori?»

«Certo», mentii. Li avrei trovati da solo.

Mi lanciò un’occhiata diffidente. «E bravo il nostro intelligentone. Forza, pulisci la tua prima vettura.» Nelle orecchie mi risuonò vetturaaa.

Scovai una scatola di metallo con il simbolo dell’azienda elettrica fissata al muro che separava il Museo delle Cere dalla Stanza della Botte e del Ponte. Dopo averla aperta, sollevai tutti gli interruttori con il palmo. Anche con i riflettori accesi, il Castello del Brivido conservava il suo fascino insieme minaccioso e pacchiano. Le ombre erano ancora acquattate negli angoli e il vento forte di quel mattino scuoteva le sottili mura di legno, facendo sbatacchiare una delle assi malferme. Mi dissi che avrei dovuto trovarla e aggiustarla.

In una mano stringevo un cestino di metallo, pieno di strofinacci puliti accompagnati da una gigantesca confezione risparmio di cera per auto. Me lo portai dietro nella Stanza Inclinata, ormai ferma nella posizione di partenza, e dentro la sala giochi. Fissai le macchinette e risentii la voce contrariata di Erin: Non capiscono che è uno spennapolli?Il ricordo mi spinse a sorridere, ma il cuore mi batteva all’impazzata. Già sapevo che cosa avrei fatto una volta portato a termine il mio compito.

I vagoncini, venti in tutto, erano allineati lungo la piattaforma dove salivano i passeggeri. Poco oltre, la galleria che conduceva nei meandri del Castello del Brivido era illuminata da un paio di vivide luci di emergenza bianche invece che dallo sfarfallio delle stroboscopiche, perdendo gran parte del suo fascino.

Probabilmente, durante l’estate Eddie non aveva neanche sfiorato le carrozze con un panno umido. Fui costretto a pulirle da cima a fondo, andando a prendere il detersivo in magazzino e caricandomi di secchi d’acqua riempiti al rubinetto più vicino. Tempo di lavarle e risciacquarle e arrivò l’ora della pausa, ma decisi di finire il lavoro piuttosto che bighellonare nel cortiletto o scendere nel pulciaio per un caffè. Avrei rischiato di incontrare Eddie e per quel mattino avevo già ascoltato abbastanza delle sue stronzate da vecchio brontolone. Invece mi impegnai a lucidare le carrozze, stendendo uno spesso strato di cera e spandendolo con movimenti circolari, passando di vettura in vettura, fino a farle ritornare nuove e splendenti sotto le luci appese al soffitto. Quasi sicuramente i prossimi gruppi di amanti del brivido non l’avrebbero neanche notato, mentre si ammassavano per la loro corsa di nove minuti. Quando terminai, avevo i guanti i rovinati. Avrei dovuto comprarne un nuovo paio alla ferramenta in città, e quelli migliori costavano un botto. Per un attimo mi divertii a immaginare la possibile reazione di Eddie se gli avessi chiesto di offrirmeli.

Appoggiai il cestino con gli stracci sporchi e il barattolo di cera ormai semivuoto nella sala giochi, accanto all’uscita del tunnel. Era mezzogiorno e dieci, ma in testa avevo idee più interessanti del pranzo. Stiracchiai gambe e braccia indolenzite, tornando alla piattaforma di partenza. Mi fermai a rimirare i vagoncini scintillanti nel riverbero, e mi incamminai lungo la monorotaia, penetrando nelle viscere del Castello del Brivido.

Passando sotto il Teschio Urlante, fui costretto ad abbassare la testa, anche se era sollevato e bloccato nella sua posizione originale. Dopo si stendevano le Segrete, dove i Dob capeggiati da Eddie avevano terrorizzato i bambini di tutte le età a forza di lamenti e ululati. La stanza era alta e tornai a drizzarmi. Il rumore dei passi rimbombava sul pavimento di legno, verniciato in modo da somigliare alla pietra. Potevo sentire il mio stesso respiro. Era stridulo e aspro. Avevo paura, lo ammetto. Tom mi aveva consigliato di stare alla larga da quel posto, ma né lui né Eddie Parks stringevano in mano le redini della mia vita. Avevo i Doors, avevo i Pink Floyd, ma volevo di più. Volevo Linda Gray.

Tra le Segrete e la Sala delle Torture, la monorotaia scendeva tracciando una curva a serpentina dove i vagoncini acquistavano velocità, sbatacchiando avanti e indietro i passeggeri. Il Castello era un’attrazione al buio, ma quando funzionava a pieno ritmo, quel tratto era l’unico veramente ammantato dalle tenebre. Lì l’assassino doveva avere sgozzato la ragazza, per poi sbarazzarsi del cadavere. Quanto era stato svelto e determinato! Al di là dell’ultima curva, i frollocconi venivano abbagliati dalle stroboscopiche. Anche se Tom non l’aveva mai ammesso, ero sicuro che il fantasma gli fosse apparso in quel punto.

Scesi lentamente lungo la serpentina; se Eddie mi avesse udito, sarebbe stato capacissimo di spegnere per scherzo i riflettori. Mi avrebbe lasciato sul luogo del delitto a cercare l’uscita a tentoni, con la sola compagnia del fischio del vento e dello sbatacchiare dell’asse sconnessa. E se… la mano di una ragazza fosse spuntata dall’oscurità e avesse agguantato la mia, come aveva fatto Erin l’ultima notte sulla spiaggia?

Le luci restarono accese. Di fianco al binario, niente camicia o guanti insanguinati circondati da un bagliore spettrale. E quando raggiunsi il punto giusto, appena prima dell’ingresso nella Sala delle Torture, non comparve nessun fantasma con le mani tese verso di me.

Però c’era qualcosa. Dopo anni, ne sono ancora certo.

L’aria era fredda. Il respiro non si trasformava in vapore, ma la temperatura era calata. Pelle d’oca su braccia, gamba e inguine, la peluria sulla nuca rizzata come aculei.

«Fatti vedere», sussurrai, sentendomi stupido e allo stesso tempo terrorizzato. Volevo che capitasse qualcosa e insieme mi auguravo che non succedesse niente.

Un rumore. Un lungo e lento sospiro, non di un essere umano. Sembrava che qualcuno avesse aperto una valvola di sfiato. Poi sparì di colpo. E fu tutto, almeno per quel giorno.

«Te la sei presa comoda», borbottò Eddie quando mi ripresentai all’una meno un quarto. Era seduto sulla stessa cassetta della frutta, con i resti di un panino lattuga, pancetta e pomodoro in una mano e un bicchiere di plastica colmo di caffè nell’altra. Ero lercio da fare schifo. Eddie, invece, pareva fresco come una rosa.

«Le vetture erano luride. Prima di incerarle, ho dovuto lavarle.»

Parks scatarrò e, voltandosi, sputò a terra un filamento di muco. «Se vuoi una medaglia, mi spiace ma sono rimasto senza. Corri da Hardy. Dice che bisogna svuotare l’impianto d’irrigazione. Un lavoretto che dovrebbe tenere impegnato un culo pigro come te per il resto della giornata. In caso contrario, torna qui e ti troverò altro da fare, scegliendo qualcosa dal mio lungo elenco.»