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Mi diede un veloce abbraccio, anche se i suoi vestiti erano immacolati e io fradicio di sudore. Poi guadagnò l’uscita, soffermandosi a stampare un bacio sulla guancia rugosa di Dottie. Lei aveva la bocca piena di spilli e non lo insultò, limitandosi a scacciarlo con un gesto della mano.

Arrivato sulla soglia, si girò verso di me. «Vuoi un consiglio, Dev? Stai lontano da…» Terminò la frase con un rapido scatto del capo. Compresi subito a che cosa intendeva riferirsi: il Castello del Brivido. Poi si volatilizzò, probabilmente pensando al ritorno a casa e a Erin, all’auto che sperava di comperare e a Erin, all’imminente anno di università… e a Erin.

Forza e coraggio, miei prodi, forza e coraggio. Avrebbero potuto intonarlo in coppia, non appena fosse arrivata la primavera. O anche quella stessa notte, se gliene fosse venuta voglia. A Wilmington. A letto. Insieme.

A Joyland non si doveva timbrare il cartellino; le entrate e le uscite erano controllate dai capisquadra. Quel primo lunedì di settembre, dopo la mia ultima esibizione, Pop Allen mi chiese di portargli la mia scheda di presenza.

«Manca ancora un’ora», gli risposi.

«Nah, una certa persona ti aspetta ai cancelli per riaccompagnarti all’ovile.» Sapevo di chi si trattava. Difficile credere che il vecchio Pop potesse avere un debole per qualcuno, ma quell’estate Erin era riuscita a fare breccia nel suo cuore di pietra.

«Conosci l’orario di domani, giovane?»

«Dalle sette e mezzo alle sei.» E niente pelliccia. Una vera benedizione.

«Sarai alle mie dipendenze per un paio di settimane, finché non volerò via verso il sole della Florida. Poi sarà Lane Hardy a occuparsi di te. E probabilmente Freddy Dean, se si accorge che sei ancora tra i piedi.»

«D’accordo.»

«Bene. Tempo di firmarti il cartellino e sei dieci-sette.» L’espressione aveva il medesimo significato nella Parlata e nel linguaggio dei radioamatori così in voga a quei tempi: fine servizio.«E… Jonesy? Di’ a quella ragazza di mandarmi una cartolina ogni tanto. Già sento la sua mancanza.»

Non era il solo.

Anche Erin aveva iniziato la transizione dalla vita di Joyland a quella normale. Erano scomparsi i jeans scoloriti e la maglietta con le maniche rimboccate fino alle spalle quasi per provocazione; la medesima sorte era toccata al vestitino verde da Sirena di Hollywood e al cappello da Robin Hood.

La ragazza bagnata dai neon scarlatti appena fuori dai cancelli indossava una camicetta sbracciata di seta azzurra, infilata in una gonna a campana sormontata da una cintura. Aveva i capelli tirati all’indietro ed era meravigliosa.

«Accompagnami lungo la spiaggia», mi chiese. «Ho appena il tempo di prendere la corriera per Wilmington. Mi vedrò con Tom.»

«Me l’ha detto. Lascia perdere il pullman. Ti do uno strappo.»

«Sul serio?»

«Ma certo.»

Iniziammo a passeggiare sulla fine sabbia bianca. In cielo era spuntata una falce di luna che disegnava una scia luminosa sull’acqua. A metà strada, non lontano dalla grande casa vittoriana verde che quell’autunno avrebbe giocato un ruolo fondamentale nella mia vita, Erin mi prese per mano. Continuammo a camminare, aprendo bocca solo dopo avere raggiunto i gradini che conducevano al parcheggio della spiaggia. Lei si voltò verso di me.

«La dimenticherai», sussurrò, fissandomi. Era senza trucco. Non ne aveva bisogno. Le bastava il bagliore della luna.

«Credo di sì», risposi. Era vero e in parte mi dispiaceva. È difficile mollare la presa, anche se sei avvinghiato a un cespuglio di rovi. Forse lo era soprattutto allora.

«E per il momento questo è il posto giusto per te. Lo sento.»

«Lo crede pure Tom?»

«No, ma non è rimasto catturato da Joyland come te… o come me, nel corso di questa estate. E dopo ciò che ha visto nel tunnel dell’orrore…»

«Voi due non ne parlate mai?»

«Ci ho provato. Ormai lascio perdere. Lui sta cercando di scordarselo, perché fa a pugni con la sua visione del mondo. Però credo sia preoccupato per te.»

«E tu?»

«No. O almeno, non per te o per lo spettro di Linda Gray. Piuttosto, per il fantasma di quella Wendy.»

Mi sfuggì un sorriso di sbieco. «Mio padre non la chiama più per nome. Si riferisce a lei come alla ‘ragazza’. Erin, mi faresti un favore non appena tornata all’università? Se hai tempo, naturalmente.»

«Certo. Di che cosa si tratta?»

Glielo dissi.

Mi chiese di lasciarla alla stazione dei pullman di Wilmington, invece di portarla direttamente alla pensione prenotata da Tom. Mi assicurò che preferiva raggiungerla in taxi. Iniziai a protestare, sottolineando che era uno spreco di denaro, ma poi mi bloccai. Mi sembrava confusa e leggermente imbarazzata. Probabilmente non le andava a genio l’idea di scendere dalla mia auto per poi spogliarsi subito dopo, infilandosi a letto con Tom.

Quando mi fermai davanti al parcheggio dei taxi, mi prese il volto tra le mani e mi baciò sulla bocca, a lungo e con intensità.

«Se non ci fosse stato Tom, ci avrei pensato ioa farti dimenticare quella stupida ragazza.»

«Ma lui c’era.»

«Sì. Lui c’era. Chiamami, Dev.»

«Ricordati la mia richiesta. Se ti dovesse capitare…»

«Non lo scorderò. Sei molto dolce.»

Senza saperne il motivo, mi venne voglia di piangere. Invece sorrisi. «E poi, ammettilo, come Howie ero il massimo.»

«Assolutamente sì. Devin Jones, il salvatore di bambine indifese.»

Per un attimo pensai che volesse baciarmi di nuovo, ma mi sbagliavo. Scivolò via dall’auto, correndo con la gonna svolazzante verso i taxi sul lato opposto della strada. Restai immobile a fissarla mentre saliva sul sedile posteriore e scompariva nel traffico. Poi me ne andai anch’io, ritornando a Heaven’s Beach, alla casa della signora Shoplaw e al mio autunno a Joyland, il migliore e il peggiore della mia intera vita.

Quando mi incamminai giù per la spiaggia il martedì dopo la festa del Lavoro, Annie e Mike Ross erano già seduti alla fine della passerella della casa vittoriana verde? Mi ricordo dei croissant ancora caldi che sbocconcellavo durante la passeggiata, ma di loro due non sono sicuro. Diventarono una parte così essenziale del panorama attorno a me, un vero e proprio punto di riferimento, che è impossibile determinare con precisione la prima volta che li notai. Niente ti fotte la memoria peggio dell’abitudine.

Dieci anni dopo gli avvenimenti che vado raccontando, lavoravo come cronista al Cleveland Magazine,forse per espiare i miei peccati. Avevo preso l’abitudine di scrivere le bozze dei miei articoli su grandi taccuini di fogli gialli in una tavola calda della Terza Strada, vicino al Lakefront Stadium, allora terreno di gioco degli Indians. Alle dieci di ogni mattina, una giovane donna entrava, ordinava quattro o cinque caffè e li portava nell’agenzia immobiliare a fianco. Anche in quel caso, non sono certo della prima occasione in cui la vidi. So che a un certo punto mi accorsi di lei, rendendomi conto che di tanto in tanto mi lanciava un’occhiata mentre usciva. Un bel giorno ricambiai il suo sguardo, lei mi sorrise e io la imitai. Otto mesi dopo eravamo sposati.

Con Annie e Mike capitò lo stesso; arrivò un momento in cui diventarono parte integrante del mio mondo. Non mancavo mai di salutarli con un cenno della mano, che il ragazzino contraccambiava, mentre il cane restava accucciato a fissarmi con le orecchie ritte e il pelo che fremeva al vento. La donna era bionda e bellissima: zigomi alti, occhi distanziati e labbra carnose, quelle che sembrano sempre leggermente tumefatte. Il ragazzino sulla sedia a rotelle portava un berretto dei White Sox che gli arrivava fino alle orecchie. Pareva molto malato, ma aveva un grande sorriso. Che andassi o tornassi, non si dimenticava mai di sfoggiarlo. Un paio di volte mi salutò persino con il segno della pace e io feci altrettanto. Eravamo diventati una componente fondamentale del nostro reciproco panorama. Probabilmente se ne accorse pure Milo, il Jack Russell terrier. Soltanto la madre preferiva tenersi in disparte. Quando passavo, spesso non alzava nemmeno lo sguardo dal libro che stava leggendo. Se lo faceva, non mi salutava e di certo non mi accoglieva con il segno della pace.