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C’era un numero di telefono e, quasi per scherzo, chiamai il parco divertimenti di Joyland. La settimana dopo, nella cassetta della posta del dormitorio arrivò un modulo d’assunzione. La lettera allegata chiariva che si trattava di un impiego a tempo pieno per l’estate (proprio quello che faceva al caso mio) e che mi sarei dovuto occupare di diverse mansioni, molte ma non tutte di manutenzione. Dovevo disporre di una patente di guida valida e sottopormi a un colloquio. Me la sarei potuta sbrigare per le vacanze pasquali, invece di tornare a casa nel Maine. Unico particolare, avevo in mente di passare almeno un po’ di quei giorni con Wendy. Esisteva persino il rischio di «farlo».

«Vai al colloquio», mi rispose lei senza esitare. «Sarà una stupenda avventura.»

«Lo sarebbe stare con te.»

«L’anno prossimo non mancheranno le occasioni.» Come sempre, si alzò in punta di piedi e mi baciò. Si stava già vedendo con l’altro tipo? Probabilmente no, ma scommetto che l’aveva notato, considerando che frequentavano lo stesso corso di sociologia avanzata. Di sicuro Renee St. Clair lo sapeva, e forse se gliel’avessi chiesto avrebbe tirato fuori tutto quanto. Vuotare il sacco era la sua specialità - sicuramente riusciva a far schiattare anche il prete durante la confessione - ma esistono argomenti di cui è meglio restare all’oscuro. Tipo, perché la ragazza che adoravi alla follia si tirasse sempre indietro, per poi ficcarsi nel letto del nuovo arrivato non appena possibile. Io non credo che si possa mai superare del tutto la ferita inferta dal primo amore, e che essa non smetta mai di bruciare. Una parte di me vuole ancora sapere che cosa avessi di sbagliato.Che cosa mi mancasse. Ormai ho sessant’anni, i capelli grigi, sono sopravvissuto a un cancro alla prostata, ma morirei pur di capire perché non andassi abbastanza bene per Wendy Keegan.

Da Boston alla Carolina del Nord presi un treno chiamato Southerner (niente di particolarmente avventuroso, ma economico) e una corriera da Wilmington a Heaven’s Bay. Sostenni il colloquio con Fred Dean che, tra mille incombenze, era anche il responsabile delle assunzioni. Dopo un botta e risposta di un quarto d’ora, insieme con una controllatina alla patente e all’attestato di volontario della Croce Rossa, mi passò una targhetta appesa a un cordino. Sopra, la dicitura OSPITE, la data di quel giorno e il disegno di un pastore tedesco sorridente dagli occhi azzurri, vagamente somigliante al famoso segugio dei cartoni animati, Scooby-Doo.

«Fatti un giro», mi consigliò. «Prova la Ruota del Sud, se ti va. La maggior parte delle attrazioni sono ancora ferme, ma quella funziona. Di’ a Lane che ti mando io. Il lasciapassare vale una giornata intera, ma ti voglio qui per…» lanciò un’occhiata all’orologio, «… per l’una, e così mi dirai se l’impiego ti interessa. Ho ancora cinque posti liberi, tutti per la stessa cosa. Allegri Aiutanti.»

«Grazie, signore.»

Fred abbozzò un cenno del capo e sorrise. «Non so come troverai questo posto, ma a me piace. È vecchio e male in arnese, però qui sta il suo fascino. Per un po’ sono stato in un parco Disney ma non mi andava. Era troppo… non saprei…»

«Troppo azienda?»

«Esatto. Troppo azienda. Troppo perfettino. Così sono ritornato a Joyland qualche anno fa. Non me ne sono pentito. Qui improvvisiamo di più. Siamo ancora legati allo spirito delle fiere di un tempo. Forza, cerca di capire che cosa ne pensi. Anzi, meglio, che cosa provi.»

«Prima posso farle una domanda?»

«Certo.»

Sfiorai il mio pass. «Chi è il cane?»

Il sorriso si allargò a riempirgli l’intera faccia. «È il Simpatico Howie, la mascotte di Joyland. Il parco è stato costruito da Bradley Easterbrook e Howie apparteneva a lui. Quello originale è ormai morto da tempo, ma vedrai parecchio la nostra mascotte, se ti fermi qui a lavorare.»

Il cane lo vidi e non lo vidi. L’enigma è semplice da risolvere, ma per la spiegazione bisogna aspettare.

Joyland era un’impresa indipendente, più piccola di un Six Flags e nemmeno paragonabile a un Disney World, ma abbastanza grande da fare colpo, soprattutto grazie alla Passeggiata di Joyland, il viale principale, e alla Strada del Segugio, quello secondario, quasi deserti e larghi almeno otto corsie. Ascoltai il ronzio delle seghe elettriche e notai decine di operai, accalcati soprattutto intorno al Muro del Tuono, uno dei due ottovolanti. Mancava il pubblico, perché il parco avrebbe aperto i battenti solo il quindici maggio. Però, alcuni punti di ristoro stavano per servire il pranzo ai lavoranti e una vecchia davanti a un baraccone da indovina tempestato di stelle mi fissava con sospetto. Tutto il resto era ancora fermo, chiuso, sbarrato.

Con un’eccezione: la Ruota del Sud. Alta più di cinquanta metri (come avrei scoperto dopo), girava con estrema lentezza. Davanti, un uomo tarchiato e muscoloso con un paio di jeans sbiaditi, una canotta e stivali di pelle scamosciata consumati e unti di grasso. Sui capelli nero carbone, una bombetta messa di sbieco. Una sigaretta senza filtro era infilata dietro un orecchio. Sembrava l’imbonitore da fiera di una vecchia striscia a fumetti. Di fianco, una cassetta degli attrezzi e una grande radio portatile sopra una cassa arancione. I Faces cantavano Stay with Me.Il tipo seguiva il ritmo dondolando le anche, le mani infilate nelle tasche posteriori dei calzoni. Un pensiero mi attraversò la mente, assurdo ma perfettamente chiaro: Da grande voglio diventare esattamente come lui.

L’uomo indicò il pass. «Ti ha mandato Freddy Dean, vero? E ti ha detto che tutto il resto era chiuso, ma che potevi scroccare un giro sulla ruota panoramica.»

«Sì, signore.»

«Un giretto per l’eletto. Che il prescelto voli in alto. Accetterai il lavoro?»

«Penso di sì.»

Mi porse la mano. «Sono Lane Hardy. Benvenuto a bordo, ragazzo.»

Gliela strinsi. «Mi chiamo Devin Jones.»

«Tanto piacere.»

Si incamminò lungo la passerella inclinata, fino alla giostra che si muoveva lenta, afferrò una lunga leva simile al cambio di un’auto, con in cima una manopola da bicicletta, e l’abbassò. La ruota si fermò senza fretta, mentre una delle cabine dipinte con colori chiassosi e contrassegnate dal muso di Howie dondolava davanti alla piattaforma per i passeggeri.

«In carrozza, Jonesy. Ti spedirò su, dove il cielo è pulito e il panorama garantito.»

Mi sistemai all’interno, tirandomi dietro lo sportello. Lane lo strattonò per verificare che fosse ben chiuso e abbassò la sbarra di sicurezza, per poi tornare alla sua rudimentale postazione di controllo. «Pronto per il decollo, capitano?»

«Credo.»

«Che la meraviglia abbia inizio!» Mi fece l’occhiolino, spingendo in avanti la leva di comando. La ruota ricominciò a girare e di colpo mi accorsi che Lane mi stava guardando dal basso. Proprio come la vecchia davanti al baraccone, il collo teso e una mano a coprirsi gli occhi. La salutai. Lei non mi rispose.

Poi mi ritrovai sospeso in cielo, più alte di me solo le curve e le giravolte del Muro del Tuono. Mi libravo nella frizzante aria di inizio primavera, sentendo (stupido ma vero) che mi lasciavo a terra ansie e preoccupazioni.

Joyland non era un parco a tema, il che permetteva di offrire un po’ di tutto. C’era un ottovolante più piccolo, il Delirio Cosmico, e uno scivolo acquatico, il Tuffo del Capitano Nemo. Al confine occidentale, un’area dedicata ai bambini, la Borgata Incantata. Non mancava neppure una sala concerti che, come scoprii più tardi, in genere ospitava cantanti country-western di terza categoria o stelle del rock che avevano conosciuto il massimo fulgore negli anni Cinquanta о Sessanta. Ricordo che una volta si divisero il palco Johnny Otis e Big Joe Turner. Fui costretto a chiedere chi fossero a Brenda Rafferty, la capo contabile e una sorta di madre adottiva per le Sirene di Hollywood. Bren mi considerò un ignorante e io pensai che fosse vecchia; probabilmente avevamo ragione entrambi.