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Lui fece sparire il fazzoletto e mi regalò un sorriso solare e spontaneo. «Sì, a patto che mi chiami ogni tanto. E manda tutti al diavolo se vogliono metterti a scalare uno dei loro fottuti otto volanti.»

Gli risposi che l’avrei fatto, anche se l’idea sembrava piuttosto eccitante.

«E…» Ma si interruppe subito, non permettendomi di capire se avesse in mente un consiglio o un avvertimento. «Guarda là!»

A una cinquantina di metri, una cerbiatta era uscita dal bosco. Scavalcò con estrema grazia un binario arrugginito e si fermò in mezzo alle traversine, dove le erbacce e le verghe d’oro erano così alte da strusciarle contro i fianchi. Restò ferma a guardarci, calma, le orecchie dritte in avanti. Di quell’attimo ricordo soprattutto il silenzio. Nessun canto di uccelli, nessun rombo di aerei. Se mia madre fosse stata con noi, avrebbe sfoderato la sua macchina fotografica, scattando a ripetizione. Quando ci pensai, sentii la sua mancanza come non succedeva da anni.

Strinsi mio padre, un abbraccio forte e veloce. «Ti voglio bene, papà.»

«Lo so», rispose. «Lo so.»

Quando mi voltai, la cerbiatta era sparita. Il giorno dopo me ne andai anch’io.

Quando ritornai alla grande casa grigia alla fine della strada principale di Heaven’s Bay, l’insegna di conchiglie era stata tolta e messa da parte, perché la signora Shoplaw aveva fatto il tutto esaurito. Benedissi Lane Hardy per avermi consigliato di procurarmi subito un posto dove vivere. Le truppe estive di Joyland erano arrivate e le pensioni della città erano strapiene.

Dividevo il primo piano con Tina Ackerley, la bibliotecaria. Emmalina aveva affittato le camere del secondo a Erin Cook, una specializzanda in arte rossa di capelli, e a Tom Kennedy, un tipo tarchiato al secondo anno della Rutgers. Erin, che aveva frequentato i corsi di fotografia al liceo e alla Bard, era stata ingaggiata come Sirena di Hollywood. Quanto a Tom e a me…

«Allegri Aiutanti», affermò lui. «Mansioni varie, in altre parole. O almeno così ha segnato Fred Dean sulla mia domanda. E tu?»

«Lo stesso. Probabilmente ci metteranno a lavare i pavimenti.»

«Ne dubito.»

«Sul serio. Perché?»

«Siamo bianchi.» In effetti, anche se ci toccarono parecchi turni di ramazza, Tom aveva assolutamente ragione. Gli addetti alle pulizie erano tutti dominicani e haitiani, quasi di sicuro senza permesso di soggiorno: venti uomini e una trentina di donne in tute da lavoro con il muso del Simpatico Howie cucito sul davanti. Vivevano in un paesino dell’entroterra, a una quindicina di chilometri dal parco, e venivano scarrozzati avanti e indietro su un paio di vecchi pulmini. Tom e io eravamo pagati quattro dollari l’ora, Erin un po’ di più. Chissà quanto guadagnavano quei poveretti. Erano sfruttati, naturalmente, e affermare che il Sud straripava di manodopera illegale trattata molto peggio non è una giustificazione valida, così come non lo è sottolineare che è roba di quarant’anni fa. Però avevano un leggero vantaggio: non erano costretti a indossare la pelliccia. E neanche Erin.

Tom e io invece sì.

La sera prima di cominciare il nostro nuovo lavoro, noi tre eravamo seduti nel salotto di casa Shoplaw, per conoscerci meglio e azzardare ipotesi sul nostro futuro. Mentre parlavamo, la luna saliva sopra l’Atlantico, placida e bella come la cerbiatta che mio padre e io avevamo visto lungo i vecchi binari della ferrovia.

«In fin dei conti è un parco divertimenti», affermò Erin. «Il lavoro non sarà poi così duro.»

«Facile per te dirlo», le rispose Tom. «Tu non dovrai pulire con l’idrante le Tazze Ballerine, dopo che un gruppo di lupetti ci ha rigettato sopra a metà giro.»

«Non mi tirerò indietro davanti a nulla. Se, oltre a scattare foto, sarò costretta ad asciugare pozze di vomito, pazienza. Ho bisogno di questo lavoro. Il prossimo anno mi aspetta la scuola di specializzazione e sono quasi in bolletta.»

«Dovremmo cercare di far parte dello stesso gruppo», dichiarò Tom, come poi accadde. A Joyland i nomi di cane si sprecavano e noi ci ritrovammo nella Squadra Bracchetto.

In quel preciso istante Emmalina Shoplaw entrò nella stanza, portando un vassoio con sopra cinque calici. La signorina Ackerley - una spilungona con enormi occhi dietro le lenti e un’aria alla Joyce Carol Oates - le camminava accanto reggendo una bottiglia. Tom Kennedy si ringalluzzì. «Sto sognando o è un gazzosino francese? La confezione è un po’ troppo elegante per del vinaccio da supermercato.»

«Sì, è champagne», ammise Emmalina. «Se però ti stai aspettando del Moët & Chandon, caro il mio signor Kennedy, temo resterai deluso. Non è vinello frizzante, ma neanche una marca pregiatissima.»

«Posso parlare solo per me, ma considerando che le mie papille sono abituate al sidro dolce, non credo che mi lamenterò», rispose Tom.

La donna sorrise. «Saluto sempre così l’inizio dell’estate, nella speranza sia di buon auspicio. In genere funziona. Nessuno dei lavoranti stagionali che ha soggiornato qui è ancora morto. Prendete un bicchiere, prego.» Naturalmente obbedimmo. «Tina, ci pensi tu a versarlo?»

Quando i calici furono pieni, la signora Shoplaw sollevò il suo e noi la imitammo.

«A Erin, Tom e Devin. Che possano passare un’estate meravigliosa e indossare la pelliccia solo quando la temperatura è al di sotto dei ventisei gradi.»

Dopo il tintinnio di bicchieri, cominciammo a bere. Forse non era una marca molto costosa, ma era delizioso, e alla fine ne restò abbastanza per un secondo giro. Quella volta fu Tom a proporre un brindisi. «Alla signora Shoplaw, che ci offre riparo dalla tempesta!»

«Oh, grazie, Tom, che idea carina. Ma non ti servirà ad avere uno sconto sull’affitto.»

Abbassai il calice dopo averlo svuotato, con la testa che mi girava appena. «Che cos’è esattamente questa storia della pelliccia?» chiesi.

La signora Shoplaw e la signorina Ackerley si scambiarono un’occhiata e sorrisero. Fu la bibliotecaria a parlare, anche se la sua risposta non chiarì molto. «Lo scoprirete presto.»

«Non andate a letto tardi, ragazzi», ci avvertì la signora Shoplaw. «Domattina vi attende una levataccia. Avete una carriera nel mondo dello spettacolo che vi aspetta.»

In effetti ci alzammo presto, alle sette precise, due ore prima che il parco aprisse i battenti per un’altra estate. Decidemmo di passare per la spiaggia. Lungo il percorso, Tom non rimase zitto un attimo, come sua abitudine. Se non fosse stato così divertente e allegro, avrebbe rischiato di passare per scocciatore. Erin camminava tra la spuma, le scarpe da ginnastica a penzolarle dalle dita della mano sinistra. Da come lo guardava, si capiva che ne era attratta e affascinata. Un’abilità che gli invidiai. Tom era tarchiato e tutt’altro che bello, ma sprizzava energia e aveva una parlantina sciolta che purtroppo mi mancava. D’altronde, come insegna una vecchia barzelletta, solo le oche giulive si scopano gli scrittori.

«Accidenti, secondo voi quanto hanno in banca i proprietari di queste meraviglie?» chiese lui, indicando con un cenno le ville su Beach Row. Stavamo superando proprio quella verde ed enorme, che somigliava a un castello, ma la donna e il ragazzino sulla sedia a rotelle non erano nei paraggi. Annie e Mike Ross arrivarono più tardi.

«Probabilmente milioni di dollari», rispose Erin. «Non sono le case degli Hamptons, ma sputaci sopra, come direbbe mio padre.»

«Forse qui i prezzi sono più bassi per colpa del parco», affermai. Stavo fissando i tre punti di riferimento di Joyland stagliarsi contro il cielo azzurro del mattino: il Muro del Tuono, il Delirio Cosmico e la Ruota del Sud.

«Ma va’, non capisci come ragionano i miliardari», ribatté Tom. «Si comportano nello stesso modo con i mendicanti che chiedono la carità per strada: non li vedono neanche. Mendicanti? Quali mendicanti? Per il parco non è diverso: quale parco? Questa gente vive su un altro pianeta.» Si fermò, riparandosi gli occhi dal sole con una mano. Guardò la grande casa vittoriana che avrebbe giocato un ruolo fondamentale nella mia vita durante l’autunno, quando Erin Cook e Tom Kennedy, ormai una coppia, sarebbero tornati all’università. «Quella sarà mia. Ne prenderò possesso… dunque… il primo giugno del 1987.»