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«Io porterò lo champagne», concluse Erin, e tutti scoppiammo a ridere.

Quella mattina, vidi per la prima e ultima volta sotto lo stesso tetto l’intera compagnia dei lavoratori stagionali. Ci raccogliemmo nell’Auditorium del Surf, la sala concerti dove si esibivano gruppi country di terza categoria e attempati cantanti rock. Eravamo quasi duecento, per la maggior parte studenti universitari disposti a sgobbare per due soldi, come Tom, Erin e il sottoscritto. C’erano anche alcuni dipendenti a tempo pieno. Notai Rozzie Gold in tenuta da lavoro, con tanto di abiti da zingara e orecchini pendenti. Lane Hardy era sul palco, impegnato a sistemare un microfono sulla pedana centrale; controllava che funzionasse picchiettandoci sopra con il dito. Portava l’immancabile bombetta, sempre sulle ventitré. Non so come, ma mi riconobbe tra la marea di ragazzi, e si sfiorò la falda del cappello per mandarmi un saluto che subito ricambiai.

Lane finì il proprio compito, annuì, saltò giù dal palco e occupò il posto che Rozzie gli aveva tenuto. Fred Dean uscì a larghe falcate da dietro le quinte.

«Per piacere, sedetevi tutti. Prima di essere assegnati a un gruppo, il proprietario di Joyland, nonché vostro datore di lavoro, ci terrebbe a dirvi due parole. Salutate con un caloroso applauso il signor Bradley Easterbrook!»

Obbedimmo e un vecchietto apparve sulla scena, muovendosi con l’andatura cauta e rigida di chi sente dolore alle anche o alla schiena. Era alto, magro come un’acciuga e vestito con un completo nero, più simile a un becchino che al padrone di un parco divertimenti. Aveva la faccia scavata, pallida, costellata di nei e bitorzoli. Farsi la barba doveva essere una tortura, eppure sfoggiava una rasatura impeccabile. I capelli erano tinti di nero e pettinati all’indietro, evidenziando la fronte solcata da rughe profonde. Si fermò accanto alla pedana, intrecciando le enormi mani nodose. Gli occhi infossati nelle orbite erano segnati da pesanti borse.

La vecchiaia fissò la giovinezza, e i nostri applausi scemarono d’intensità per poi spegnersi di colpo.

Chissà che cosa ci aspettavamo. Forse una voce lamentosa e grave, ad annunciarci l’imminente dominio della Morte Rossa. Poi l’uomo sorrise, illuminandosi come un fuoco d’artificio. Noi lavoratori stagionali tirammo un sospiro di sollievo. Più tardi appresi che quell’estate Bradley Easterbrook aveva compiuto novantatré anni.

«Benvenuti a Joyland, ragazzi.» Prima di salire sulla pedana, ci fece un inchino. Passò parecchi secondi a sistemare il microfono, liberando una cacofonia amplificata e distorta. Nel frattempo, non smise mai di fissarci con quei suoi occhi infossati.

«Vedo molte vecchie conoscenze, che per me è sempre una grande gioia. In quanto a voi novellini, spero sarà l’estate migliore della vostra vita e il metro di paragone per tutti i vostri impieghi futuri. Si tratta sicuramente di un augurio inusuale, ma chiunque tenga le redini di un posto simile da parecchi anni deve essere per forza stravagante. Di certo, non avrete mai più un lavoro così.»

Ci scrutò a fondo, martoriando la povera asta del microfono.

«Tra pochi minuti, il signor Dean e la signora Brenda Rafferty, la regina dell’amministrazione, vi divideranno in squadre. Ognuna sarà composta da sette elementi, che dovranno lavorare e collaborare insieme. Sarà il capogruppo ad assegnare i compiti che cambieranno di settimana in settimana, talvolta addirittura di giorno in giorno. Se la varietà è davvero il sale della vita, troverete i prossimi tre mesi assai saporiti. Spero però che terrete a mente soprattutto un particolare, ragazze e ragazzi. Pensate di esserne capaci?»

Si fermò, come ad aspettare una risposta, ma nessuno aprì bocca. Ci limitammo a fissare quel vecchio in completo scuro e camicia bianca con il colletto slacciato. Quando riprese il discorso, almeno all’inizio sembrò parlare tra sé e sé.

«Il nostro è un mondo in rovina, funestato da guerre, atrocità e assurde tragedie. A ogni suo abitante, uomo o donna che sia, è toccata una razione di infelicità e di notti insonni. Quelli di voi che ancora ne sono all’oscuro, lo scopriranno presto. Considerata questa triste ma innegabile verità della condizione umana, avete appena ricevuto un dono inestimabile: vi trovate qui per vendere divertimento. Voi distribuirete felicità ai frequentatori del parco, in cambio dei loro sudati risparmi. I bambini ritorneranno a casa, sognando quello che hanno visto e fatto a Joyland. Spero ve lo ricorderete ogni volta che il lavoro sarà duro o qualcuno vi tratterà male, come spesso capiterà, o quando penserete che nessuno riconosca i vostri sforzi. Questo è un mondo diverso, con le sue abitudini e il suo gergo, che noi chiamiamo semplicemente la Parlata. Oggi comincerete ad apprenderlo: e capirete come muovere i vostri passi. Non si può spiegare; va imparato, punto e basta.»

Tom si piegò su di me, sussurrando: «Che passi? Non è che siamo finiti a una riunione degli alcolisti anonimi?»

Gli feci cenno di chiudere il becco. Mi sarei aspettato una serie di regole, di rigide proibizioni stile Antico Testamento; invece, avevo ascoltato qualcosa di poetico, senza tanti fronzoli, restandone affascinato. Bradley Easterbrook ci scrutò una seconda volta, per poi tornare a sorridere, mettendo in mostra i denti da cavallo. La bocca era così grande, adesso, che poteva mangiarsi il mondo intero. Erin lo guardava incantata, alla pari della maggior parte della manodopera stagionale, un po’ come una scolaresca davanti a un insegnante che le offre un nuovo ed eccitante punto di vista sulla realtà.

«Mi auguro vi piacerà lavorare qui. Dovesse succedere il contrario, come quando verrà il vostro turno di indossare la pelliccia, provate a riflettere su quanto siete fortunati. In un mondo triste e buio, noi siamo una piccola oasi felice. Molti di voi hanno già dei progetti in testa e sperano di diventare dei medici, degli avvocati, forse dei politici…»

«Per carità di Dio!» urlò qualcuno, accompagnato da una risata generale.

Contro ogni mia previsione, il ghigno del vecchio si allargò ancora di più. Tom scuoteva la testa, pur essendosi arreso. «Va bene, ho capito», mi bisbigliò all’orecchio. «Questo tipo è il messia dello spasso.»

«Avrete vite interessanti e ricche, miei giovani amici. Farete un mucchio di belle cose e di esperienze importanti. Spero ricorderete Joyland come una tappa speciale della vostra esistenza. Non vendiamo mobili o auto. Non vendiamo terreni o case o fondi pensione. Non abbiamo un programma politico. Noi vendiamo divertimento.Non dimenticatelo mai. Grazie per l’attenzione. Potete andare.»

Si allontanò dalla pedana, improvvisò un inchino di commiato e uscì di scena con la solita camminata rigida e dolorante. Era quasi sparito quando partirono gli applausi. Era uno dei migliori discorsi che avessi mai ascoltato, perché c’era più verità che stronzate. Insomma, quanti bifolchi possono scrivere sul loro curriculum: «Nel 1973 ho venduto divertimento per tre mesi»?

Tutti i capisquadra erano dipendenti di vecchia data, che fuori stagione lavoravano nel giro delle fiere itineranti. Molti facevano parte dell’associazione dei parchi gioco, dovevano vedersela con le leggi statali e federali (per nulla rigorose nel 1973) e districarsi tra le lamentele del pubblico. Quell’estate, in parecchi protestarono per le nuove disposizioni antifumo.

Il nostro caposquadra era un ometto arzillo di nome Gary Allen, il responsabile settantenne del Tirassegno di Buffalo Bill. Dopo il primo giorno, nessuno di noi lo chiamò più così. Secondo la Parlata, un tirassegno era uno sparaspara e Gary il cecchino. Noi sette della squadra Bracchetto lo incontrammo al suo baraccone, dove era impegnato ad assicurare i fucili alle catenelle. Insieme con il resto del gruppo, il mio primo lavoro a Joyland fu disporre i premi sui ripiani. A guadagnarsi il posto d’onore, i grandi peluche imbottiti che pochi vincevano… anche se Gary si premurava di regalarne almeno uno ogni sera a chi spendeva di più.