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«Va bene», replicai. «Grazie per la dritta.»

«È stato un piacere rivederti, Erin.» Dean la salutò sfiorandosi il cappello e affrettandosi verso il cortiletto.

Erin aspettò che si fosse dileguato per scoppiare a ridere. «Quei calzoni!Ma li hai notati?»

«Sì. Incredibili.» Ma non mi sarei mai permesso di scherzarci sopra. O di beffarmi di lui. Secondo Lane, Fred Dean teneva insieme Joyland a forza di sputo, fil di ferro e diavolerie contabili. Di conseguenza, pensavo che avesse il diritto di indossare tutti i pantaloni da golf che desiderava. Se non altro non erano a quadri.

«Che cos’è questa faccenda del ragazzino che vorresti portare al parco?»

«È una lunga storia. Te ne parlerò mentre torniamo indietro.»

E così le raccontai la versione da boy scout con una medaglia al merito per la modestia, tralasciando il violento litigio all’ospedale. Erin mi ascoltò senza interrompermi, limitandosi a una sola domanda, non appena raggiunti i gradini che salivano dalla spiaggia. «Dimmi la verità, Dev: è una tipa da sturbo, la mammina?»

Me lo chiedevano tutti.

Quella sera Erin e Tom se la filarono da Surfer Joe’s,una birreria con pista da ballo dove avevano passato parecchi momenti liberi durante l’estate. Lui mi invitò ad aggregarmi, ma decisi di prestare ascolto al vecchio detto secondo cui in due si è in compagnia e in tre eccetera eccetera. Comunque, dubitavo avrebbero ritrovato lo stesso caos festaiolo di un tempo. In città come Heaven’s Bay c’è un’enorme differenza tra luglio e ottobre. Glielo feci persino notare, calandomi nel mio ruolo da fratello maggiore.

«Non capisci, Dev», mi rispose Tom. «Erin e io non andiamo in cercadi divertimento. Noi lo portiamo.È una lezione che abbiamo imparato la scorsa estate.»

Tuttavia, li ascoltai arrampicarsi su per le scale a un’ora decente, e non troppo sbronzi, almeno a giudicare dalla voce. I sussurri e le risatine soffocate però mi fecero provare una vaga solitudine. Non sentivo la mancanza di Wendy, ma di qualcuno, in generale. Ripensandoci, probabilmente si trattava di un ulteriore passo avanti.

Mentre erano via, lessi da cima a fondo gli appunti di Erin, non scovando nessuna novità. Dopo quindici minuti li accantonai, ritornando alle fotografie, alle patinate immagini in bianco e nero scattate a Joyland «dalla vostra Sirena di Hollywood».

All’inizio le sfogliai soltanto; poi mi sedetti sul pavimento e le disposi a terra, tracciando un quadrato, muovendole da un posto all’altro come chi cerca di ricomporre un rompicapo, che alla fin fine era ciò che stavo facendo.

Erin era colpita dal legame tra l’industria del divertimento e i finti tatuaggi. Particolari che inquietavano pure me, ma c’era dell’altro. Qualcosa che non riuscivo ad afferrare. Era frustrante, perché sentivo di averlo davanti agli occhi. Decisi di riporre tutte le foto nella cartellina, tranne le due più significative. Me le tenni di fronte, fissandole a turno.

Linda Gray e il suo assassino in coda per le Tazze Ballerine.

Linda Gray e il suo assassino al Tirassegno di Buffalo Bill.

Fregatene del tatuaggio, mi dissi. Non è quello. È qualcos’altro.

Ma che cosa? Le lenti scure gli nascondevano gli occhi. Il pizzetto gli copriva la parte inferiore del volto, e la tesa leggermente inclinata gli oscurava la fronte e le sopracciglia. Sul berretto, un pesce gatto sbucava da una grande C rossa: lo stemma dei Mudcats, una squadra minore del campionato di baseball.

In piena stagione il parco pullulava di copricapi simili, tanto da essere soprannominati gattappelli invece di cancappelli. Quel figlio di puttana non avrebbe potuto scegliersi un berretto più anonimo, e di sicuro non l’aveva fatto a caso.

Continuavo ad andare avanti e indietro, dalle tazze al tirassegno e poi di nuovo alle tazze. Alla fine buttai le fotografie dentro la cartellina, che gettai a sua volta sopra la mia piccola scrivania. Mi misi a leggere fino al ritorno dei miei amici e poi mi infilai a letto.

Magari domattina mi verrà in mente, pensai. Mi sveglierò esclamando: «Oh, merda, ma certo, è così!»

Il suono della risacca mi conciliò il riposo. Sognai di essere sulla spiaggia con Annie e Mike. Lei e io eravamo abbracciati, i piedi tra la spuma, e guardavamo il ragazzino intento a far volare l’aquilone. Correva dietro al giocattolo, srotolando lo spago. Riusciva a farlo perché era in perfetta forma. Stava bene. La distrofia muscolare di Duchenne era stata solo un incubo.

Mi svegliai presto perché mi ero scordato di tirare le tende. Agguantai la cartellina e sfilai le due fotografie, osservandole alla luce del primo mattino, certo che avrei trovato la risposta che andavo cercando.

Mi sbagliavo.

Grazie a una serie di fortunate coincidenze, Erin e Tom erano riusciti a viaggiare insieme dal New Jersey alla Carolina del Nord; quando però ci sono di mezzo gli orari ferroviari, la buona sorte costituisce un’eccezione piuttosto che la regola. Quella domenica dovettero accontentarsi di restare fianco a fianco solo sulla mia Ford, da Heaven’s Bay a Wilmington. Il treno di Erin partiva per la parte settentrionale dello Stato di New York e Annandale-on-Hudson due ore prima dell’espresso costiero di Tom, diretto nel New Jersey.

Le ficcai un assegno nel taschino della giacca. «Per i prestiti interbibliotecari e le chiamate interurbane.»

Lo tirò fuori, controllò la cifra e tentò di restituirmelo. «Ottanta dollari sono un’esagerazione, Devin.»

«Considerando tutto ciò che hai scoperto, sono appena sufficienti. Prendili, tenente Colombo.»

Lei rise di gusto e la striscia di carta tornò nel taschino. Mi salutò con un altro bacio molto casto, come fossimo stati fratello e sorella, completamente diverso da quello dell’estate appena trascorsa. Passò decisamente più tempo tra le braccia di Tom. I due si ripromisero di incontrarsi il giorno del Ringraziamento, a casa dei genitori di lui nella Pennsylvania occidentale. Mi resi conto che Tom non voleva lasciarla andare, ma si vide costretto a farlo quando gli altoparlanti diffusero l’ultimo annuncio per Richmond, Baltimora, Wilkes-Barre e le destinazioni a nord di New York.

Quando Erin partì, il mio amico e io attraversammo la strada con calma, concedendoci una cena di tardo pomeriggio a base di costolette per nulla malvagie. Stavo prendendo in considerazione la lista dei dolci quando lui si schiarì la voce. «Senti, Dev.»

Il suo tono mi spinse a sollevare subito lo sguardo. Era più agitato del solito, le gote paonazze. Abbassai il menu.

«Questa faccenda in cui hai coinvolto Erin… ecco, penso sarebbe meglio darci un taglio. Non solo ne è turbata, ma temo stia trascurando gli studi.» Si lasciò sfuggire una risatina, dando un’occhiata fuori dalla finestra al viavai nei pressi della stazione, e poi tornò a fissarmi. «Accidenti, sembro più suo padre che il suo ragazzo.»

«Sei preoccupato, nient’altro. Si vede che ci tieni.»

«Ci tengo?Bello mio, ne sono follemente innamorato. Per me non esiste nulla di più importante. Però mi preme chiarire che non è una questione di gelosia. In parole povere: se vuole trasferirsi di università senza rinunciare ai sussidi per gli studenti, la sua media deve restare alta. Capisci, vero?»

Sicuro. Però intuivo anche qualcos’altro, di cui Tom pareva non rendersi conto. Lui la voleva lontana da Joyland con il corpo e con la mente, perché nel parco gli era capitato un imprevisto che non riusciva a capire. E non aveva la minima intenzione di sforzarsi: un atteggiamento piuttosto sciocco, almeno secondo me. Venni nuovamente assalito da una profonda invidia, che contribuì a farmi restare sullo stomaco il cibo che tentavo di digerire.

Mi sforzai di sorridere; un’impresa non da poco, ve lo assicuro. «Messaggio ricevuto. Per quel che mi riguarda, il nostro piccolo progetto di ricerca è giunto alla fine.» Adesso rilassati, Thomas. Puoi smettere di pensare a quanto accaduto nel Castello del Brivido. Dimenticati quanto hai visto con i tuoi stessi occhi.