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«Perfetto. Siamo ancora amici, vero?»

Mi sporsi lungo il tavolo. «Fino alla fine.»

Sigillammo il patto con una salda stretta di mano.

Il teatrino della Borgata Incantata disponeva di tre fondali: il castello del Principe Azzurro, la pianta di fagioli magici di Jack e una notte stellata con il profilo della Ruota del Sud in neon rossi. Durante l’estate si erano tutti scoloriti a causa della luce del sole. Lunedì mattina ero dietro le quinte, occupato a ritoccarli e cercando di non rovinarli (non ero certo van Gogh) quando uno dei rincitrulli che lavoravano a mezza giornata arrivò con una comunicazione da parte di Fred Dean. Mi voleva subito nel suo ufficio.

Ci andai con una certa riluttanza, chiedendomi se mi sarei buscato una strigliata per avere portato Erin nel parco di sabato. La sorpresa fu enorme quando trovai Fred senza la sua solita giacca o il simpatico completo da golf, ma con un paio di jeans e una maglietta di Joyland completamente stinti, le maniche arrotolate per sfoggiare la muscolatura. Attorno alla fronte sfoggiava una fascia con una fantasia cachemire. Non sembrava un contabile o un responsabile delle assunzioni, ma il manovratore di una giostra.

Si accorse del mio stupore e sorrise. «Ti piace la mia mise? A me sì. Mi agghindavo così quando iniziai a lavorare nello spettacolo dei Blitz Brothers nel Midwest. Erano gli anni Cinquanta. Mia madre rispettava i Blitz, ma papà li detestava. E luiera un figlio del carrozzone.»

«Lo so», risposi.

Inarcò le sopracciglia. «Sul serio? A Joyland le notizie viaggiano veloci. Comunque, questo pomeriggio avremo parecchio da fare.»

«Mi dia un elenco delle urgenze. Ho quasi finito di ridipingere i fondali del…»

«Neanche per sogno, Jonesy. Oggi staccherai a mezzogiorno, e non voglio vederti prima di domattina alle nove, quando ti presenterai con i tuoi invitati. Non preoccuparti dei soldi. Verrai pagato anche per le ore di permesso.»

«Che sta succedendo, Fred?»

«È una sorpresa», mi rispose con un sorriso enigmatico.

Era un lunedì caldo e soleggiato; mentre tornavo a Heaven’s Bay, Annie e Mike stavano pranzando alla fine della passerella di legno. Milo mi vide arrivare e mi corse incontro.

«Dev!» gridò il ragazzino. «Vieni a mangiare un tramezzino! Ce ne sono un mucchio!»

«No, grazie, io…»

«Ci permettiamo di insistere», intervenne la madre, per poi corrugare la fronte. «A meno che tu non sia malato. Non voglio che attacchi i germi a Mike.»

«Sto benissimo. Mi hanno solo mandato a casa in anticipo. Il mio capo, il signor Dean, non ha voluto spiegarmene il motivo. Ha detto che era una sorpresa. Credo abbia qualcosa a che vedere con domani.» La fissai con una punta di agitazione. «Siamo sempre d’accordo per martedì, giusto?»

«Sì», confermò lei. «Quando decido di gettare la spugna, non ritorno sui miei passi. Però cercheremo di non stancare Mike, mi auguro.»

« Mamma…» si lamentò il figlio.

Annie non gli prestò attenzione. «Allora, Dev?»

«Sissignora. Niente sfacchinate.» Anche se vedere Fred Dean addobbato come un bellimbusto da fiera, con quell’impensabile sfoggio di muscoli, mi aveva messo a disagio. Gli avevo specificato quanto Mike fosse cagionevole di salute? Immaginavo di sì, ma…

«Bene. Vieni a prenderti un tramezzino», replicò la donna. «Spero ti piaccia l’insalata di uova e maionese.»

Mi toccò una notte agitata, in parte convinto che la tempesta tropicale menzionata da Fred sarebbe arrivata in anticipo, mandando all’aria la gita al parco di Mike. Ma l’indomani il sole si levò senza l’ombra di una nuvola. Alle sette meno un quarto sgattaiolai in salotto e accesi il televisore per non perdermi le previsioni del tempo della WECT, l’emittente di Wilmington. La bufera proseguiva nel suo cammino, ma per il momento i suoi effetti avrebbero interessato solo le comunità costiere della Florida e della Georgia. Mi augurai che il signor Easterbrook si fosse portato dietro un paio di galosce.

«Sei più mattiniero del solito», osservò la signora Shoplaw, facendo capolino dalla cucina. «Stavo preparando uova strapazzate e pancetta. Vieni ad assaggiarle.»

«Non ho molta fame, signora S.»

«Sciocchezze. Sei un ragazzo nel pieno dello sviluppo, Devin, e hai bisogno di mangiare. Erin mi ha raccontato che cosa hai programmato per oggi e credo sia una splendida idea. Andrà tutto bene.»

«Spero abbia ragione», risposi, continuando a pensare a Fred Dean in abiti da fatica. Fred, che mi aveva spedito a casa in anticipo. Fred, che aveva in serbo una sorpresa.

Ci eravamo accordati a pranzo il giorno prima, e quando alle otto e mezzo di martedì mattina il mio catorcio imboccò il vialetto della grande casa vittoriana verde, Annie e Mike erano già pronti per la partenza. E lo era anche Milo.

«Sei sicuro che non darà fastidio a nessuno?» aveva chiesto il ragazzino. «Non voglio creare problemi.»

«A Joyland non è vietato l’ingresso ai cani accompagnatori. E tu sei uno di loro, vero, Milo?»

L’animale aveva piegato il muso di lato, come se il concetto non gli fosse totalmente chiaro.

Quel mattino Mike si era infilato i tutori per le gambe, enormi e ingombranti. Feci per aiutarlo a salire sul furgoncino, ma lui mi allontanò con un gesto della mano, sbrigandosela da solo. Faticò parecchio; mi sarei aspettato un accesso di tosse, che invece non arrivò. Era talmente eccitato che non riusciva a stare fermo. Annie, con le gambe chilometriche fasciate in un paio di jeans affusolati, mi allungò le chiavi del furgone. «Meglio che guidi tu.» E poi, abbassando la voce per non farsi sentire dal figlio: «Io sono troppo nervosa».

Anch’io lo ero. Dopo tutto, mi ero imposto con la forza di uno schiacciasassi. Mike mi aveva dato manforte, ma l’adulto ero io. Se qualcosa fosse andato storto, la colpa sarebbe ricaduta su di me. Non ero un tipo molto religioso, ma mentre caricavo sul retro della macchina le grucce e la sedia a rotelle, pregai che tutto filasse per il verso giusto. Uscii a marcia indietro dal vialetto e svoltai su Beach Row, oltrepassando il cartellone pubblicitario con la scritta PORTATE I VOSTRI PICCOLI A JOYLAND PER UN’ESPERIENZA INDIMENTICABILE!

Annie era accanto a me sul sedile del passeggero. Non era mai stata così bella come quella mattina di ottobre, con i suoi jeans sbiaditi e un maglione leggero, i capelli legati a coda con un nastro blu.

«Grazie per quello che stai facendo, Dev», mi disse. «Spero solo che sia la cosa giusta.»

«Lo è», risposi, cercando di mostrarmi più sicuro di quanto fossi. Perché, una volta raggiunto il mio obiettivo, mi ritrovavo roso dai dubbi.

L’insegna di Joyland era accesa. Fu il primo particolare che notai. Subito dopo mi accorsi che gli altoparlanti stavano diffondendo la musica sbarazzina della passata stagione estiva: una sfilza di tormentoni da classifica degli ultimi anni. Avevo pensato di posteggiare in uno degli spazi della zona A riservati ai disabili, distanti appena una quindicina di metri dall’ingresso del parco. Prima che fermassi il furgone, Fred Dean uscì dal cancello spalancato e ci fece cenno di entrare. Non indossava un banale completo, ma l’abito elegante con il panciotto che teneva da parte per le sporadiche visite delle celebrità degne di un trattamento speciale. Se il vestito gliel’avevo già visto, il cilindro di seta nera come quelli degli uomini di Stato nei vecchi cinegiornali era un’autentica novità.

«È normale tutto questo?» mi domandò Annie.

«Certo.» Mi girava leggermente la testa. Non c’era niente di normale.

Attraversai il cancello, proseguendo lungo la Passeggiata di Joyland e parcheggiando accanto alla panchina della Borgata dove mi ero seduto con il signor Easterbrook dopo la mia prima esibizione nei panni di Howie.

Mike era intenzionato a scendere dal furgone così come ci era salito: senza l’aiuto di nessuno. Gli restai vicino, pronto ad afferrarlo al volo se avesse perso l’equilibrio, mentre Annie era impegnata a scaricare la sedia. Milo era accucciato ai miei piedi, scodinzolante, le orecchie tese, gli occhi vispi e luminosi.