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Non appena Annie aprì il trabiccolo a rotelle, Fred le si avvicinò in una nuvola di dopobarba. Era… radioso. Non esiste altro aggettivo per definirlo. Si levò il cappello, salutò la donna con un inchino e le tese la mano. «La madre di Mike, immagino.»

Dovete sapere che a quei tempi esisteva ancora una rigida distinzione tra signora e signorina; nervoso com’ero, ci impiegai un attimo per apprezzare l’abilità con cui Fred aveva evitato il rischio dell’imbarazzo.

«Sì, sono io.» Pareva disorientata, forse per il garbo inaspettato dell’uomo o per la differenza del loro abbigliamento, lei in tenuta sportiva per una gita a un parco e lui agghindato da ambasciatore in missione ufficiale. Comunque, lo salutò con una forte stretta. «E questo giovanotto…»

«… è Michael.» Fred Dean porse la mano al ragazzino con gli occhioni sgranati e le gambe imprigionate nei tutori d’acciaio. «Grazie per esserci venuto a trovare.»

«Prego… cioè, no, sono ioa ringraziarvi. Per averci invitati.» Gli strinse le dita tra le sue. «Questo posto è gigantesco.»

Non lo era, naturalmente. Non sembrava certo Disney World. Ma a un ragazzino di dieci anni che non era mai stato in un parco divertimenti, doveva fare quell’impressione. Per un attimo riuscii a guardare Joyland con i suoi occhi, come se non l’avessi mai visto prima, e i miei dubbi sull’opportunità di trascinarlo lì dentro iniziarono a svanire lentamente.

Fred si appoggiò le mani sulle ginocchia, chinandosi a osservare il terzo membro della famiglia Ross. «E tu sei Milo!»

Il cane abbaiò.

«Sì, anch’io sono felice di conoscerti.» L’uomo tese la mano, aspettando che Milo sollevasse la zampa. Quando lo fece, gliela strinse.

«Come mai sa il suo nome?» gli chiese Annie. «Gliel’ha detto Dev?»

Fred Dean si drizzò con un sorriso. «Niente affatto. Ne sono a conoscenza perché questo è un posto magico, mia cara. Per esempio…» Mostrò i palmi vuoti, per poi nasconderli dietro la schiena. «Destra o sinistra?»

«Sinistra», rispose Annie, stando al gioco.

Lui gliela porse, aprendola. Era vuota.

La donna alzò gli occhi al cielo, sorridendo. «E va bene, destra.»

Fred tirò fuori all’improvviso un mazzo di rose. Vere, non di plastica. Annie e Mike sussultarono di sorpresa.

Io non fui da meno. Dopo tutto il tempo che è passato, ancora non ho capito il trucco.

«Joyland è per i bambini, mia cara, e siccome oggi non ce n’è nessuno oltre a Mike, il parco è solo per lui. Queste, però, sono per lei.»

Annie afferrò il mazzo come in un sogno, affondando il volto tra i fiori, annusandone il dolce nettare rosso.

«Vado a metterle sul furgone», le dissi.

Lei le strinse ancora per un istante e poi me le consegnò. «Mike», proseguì Fred, «hai idea di che cosa vendiamo qui?»

Il ragazzino restò perplesso. «Biglietti per le giostre e i giochi?»

«Noi vendiamo divertimento.Ne vuoi un po’?»

Ricordo ancora la giornata di Mike e di Annie al parco come se fosse ieri, ma ci vorrebbe un narratore molto più dotato di me per farvi capire che cosa provai e per spiegarvi perché da quel momento in poi Wendy Keegan non fu più padrona del mio cuore e delle mie emozioni. Posso solo confermarvi un fatto risaputo: certi giorni valgono più dell’oro. Non sono molti, ma nel corso di quasi ogni vita ne esistono almeno un paio. Quello fu uno dei miei e ogni volta che sono giù di corda e il mondo non mi sorride e tutto mi sembra finto e dozzinale come la Passeggiata di Joyland in un pomeriggio di pioggia, io ritorno con la memoria a quel martedì di ottobre, anche solo per ricordare a me stesso che la nostra esistenza non è sempre un gioco da spennapolli. Talvolta i premi sono reali. Talvolta hanno un valore immenso.

Naturalmente non tutte le attrazioni erano in funzione, e si rivelò un bene, perché ce n’erano parecchie da cui Mike sarebbe dovuto stare lontano. Però quella mattina più di metà parco era in piena attività: luci, musica, una manciata di baracconi dove una decina di rincitrulli smerciavano popcorn, patatine fritte, bibite, zucchero filato e Cucciolotti Golosi. Non avevo idea di come Fred e Lane ce l’avessero fatta nel giro di un solo pomeriggio, ma c’erano riusciti.

Iniziammo dalla Borgata, dove Lane ci stava aspettando di fianco alla locomotiva del trenino Ciuffolo. In testa non aveva la bombetta ma un berretto con visiera da macchinista, sempre sulle ventitré (e come, se no?). «In carrozza! Non perdete la corsa dove i bimbi son felici, perciò lesti, amici! I cani non pagano, le mamme nemmeno, i mocciosi stanno con chi guida il treno!»

Indicò prima Mike e poi il sedile accanto al proprio. Il ragazzino si alzò dalla sedia a rotelle e imbracciò le grucce, muovendosi traballante. Annie si affrettò ad aiutarlo.

«No, mamma, nessun problema, posso farcela.»

Senza perdere l’equilibrio, raggiunse Lane con un rumore di ferraglia, un ragazzo in carne e ossa ma con gambe da robot, e si lasciò caricare sul sedile del passeggero. «È la corda che aziona il fischio a vapore? Posso tirarla?»

«È lì apposta», rispose Lane. «Però sta’ attento ai porcellini sulle rotaie. In giro c’è il lupo cattivo e loro hanno una fifa boia.»

Annie e io ci accomodammo su uno dei vagoni. Le luccicavano gli occhi. Le guance erano più colorate delle rose. Le labbra erano serrate ma non smettevano di tremarle.

«A posto?» le chiesi.

«Sì.» Mi prese la mano, intrecciando le dita tra le mie, stringendole così forte che quasi mi fece male. «Sì. Sì. Sì.»

«Spie verdi accese sul pannello di comando!» urlò Lane. «Me lo confermi, Michael?»

«Confermato!»

«A che cosa devi stare attento sulle rotaie?»

«Ai porcellini!»

«Bimbo, hai uno stile magico per niente tragico! Tira la corda e partiamo!»

Mike eseguì l’ordine. Il fischio lacerò l’aria. Milo prese ad abbaiare. I freni pneumatici sibilarono e il treno iniziò la sua corsa.

Il Ciuffolo era un’attrazione per poppanti, ovvero un biberon su ruote, poco ma sicuro. Lo erano tutte quelle della Borgata, adatte per bambini tra i tre e i sette anni. Dovete però ricordarvi che Mike Ross usciva molto di rado, in particolar modo dopo la polmonite dell’anno prima, e che aveva trascorso un’eternità seduto con la madre alla fine della passerella di legno, ascoltando le urla felici e il frastuono delle attrazioni riecheggiare lungo la spiaggia, con l’amara consapevolezza che non erano roba per lui. Ad attenderlo, il fiato sempre più corto e i polmoni che cedevano, continui colpi di tosse, la graduale impossibilità di camminare anche con l’aiuto delle stampelle e dei tutori, e alla fine il letto dove sarebbe morto, con un pannolino sotto il pigiama e una maschera a ossigeno sulla faccia.

La Borgata Incantata era quasi disabitata, senza i pivelli che interpretavano i personaggi delle fiabe, ma Fred e Lane avevano riattivato le parti meccaniche: la pianta di fagioli magici che spuntava di botto dal terreno in uno sbuffo di vapore, la strega che ridacchiava gracchiante davanti alla casa di marzapane, il tè del Cappellaio Matto, il lupo cattivo con la cuffia da notte acquattato in uno dei sottopassaggi che balzava fuori al passaggio del treno. Mentre aggiravamo l’ultima curva, superammo tre casette che tutti i bambini conoscono a menadito: una di paglia, una di legno e una di mattoni.

«Attento!» gridò Lane, e in quel preciso istante i porcellini attraversarono i binari ballonzolando e lanciando grugniti debitamente amplificati. Mike se la fece sotto dalle risate e tirò la corda del fischietto. Come sempre, i tre animali salvarono la cotenna… per un pelo.

Quando rientrammo in stazione, Annie mi lasciò la mano, precipitandosi alla locomotiva. «Come ti senti, tesoro? Vuoi il tuo inalatore?»

«No, sto da favola.» Il ragazzino si voltò verso Lane. «Grazie, signor macchinista!»

«Prego!» L’uomo gli tese il palmo. «Dammi il cinque, bello, e sei mio fratello.»