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I dipendenti stagionali ingaggiati da Fred Dean non erano obbligati a conoscere la rianimazione cardiopolmonare al momento della firma del contratto, perché l’avrebbero imparata sul posto. Grazie alla lezione di primo soccorso a cui avevo partecipato da ragazzino al campeggio dei metodisti, ero già un esperto. Anni prima, ci eravamo radunati sul bordo della piscina sperimentando ogni possibile tecnica su un manichino dal nome improbabile di Ercole Merluzzo.

Avevo finalmente occasione di passare dalla teoria alla pratica. A dirla tutta, ricorsi allo stesso, vigoroso massaggio che avevo utilizzato per fare uscire l’hot dog dalla gola di Hallie Stansfield. Non indossavo la pelliccia e non mi vidi costretto ad abbracciare nessuno, ma fu sempre questione di forza bruta. Incrinai quattro costole di quel vecchio figlio di puttana e gliene spezzai una quinta. Onestamente, non mi dispiacque affatto.

Lane mi trovò inginocchiato di fianco a Eddie, occupato a comprimergli il petto con il palmo delle mani, prima spostando il peso in avanti e poi tirandomi indietro per controllare se aveva esalato un respiro.

«Cristo», commentò Lane. «Un infarto?»

«Quasi certamente sì. Chiama un’ambulanza.»

Il telefono più vicino era nel gabbiotto accanto al tirassegno di Pop Allen: la sua tana, secondo la Parlata. Era chiuso con un lucchetto, ma Lane possedeva le chiavi del regno, tre passe-partout che aprivano qualsiasi serratura del parco. Ripartì di corsa, mentre proseguivo con la rianimazione, oscillando avanti e indietro, con le cosce che mi dolevano e le ginocchia che si lamentavano del contatto prolungato con l’asfalto ruvido della Passeggiata. Dopo ogni serie di cinque compressioni, contavo lentamente fino a tre, aspettando inutilmente che Parks inspirasse. Niente gioia a Joyland, non per lui. Non dopo la prima serie di cinque, non dopo la seconda, non dopo le molte altre. Era immobile, le mani guantate abbandonate lungo i fianchi, la bocca spalancata. Quel gran coglione di Eddie Parks. Restai a fissarlo mentre Lane tornava a razzo, urlando che l’ambulanza era in dirittura d’arrivo.

Non lo farò, pensai. Manco per il cazzo.

Poi mi chinai in avanti, spingendo i palmi contro il torace e premendo la mia bocca contro la sua. Non fu terribile come temevo. Peggio. Le labbra sapevano di sigaretta, ma dalla gola veniva un tanfo… Signore, pareva peperoncino piccante, magari nell’omelette che si era sbafato a colazione. Gli restai incollato, chiudendogli il naso con due dita e insufflandogli l’aria nella cavità.

Fui costretto a ripetere l’operazione cinque o sei volte di seguito, finché non cominciò a respirare da solo. Diedi un taglio alle compressioni, per capire che cosa sarebbe successo, e lui continuò senza problemi. Probabilmente quel giorno all’inferno non c’erano posti liberi. Lo rigirai su un fianco, in caso gli fosse venuto da vomitare. Lane mi era accanto e mi teneva una mano sulla spalla. Poco dopo, ascoltammo il lamento di una sirena nelle vicinanze.

Lane si affrettò ai cancelli per accogliere gli infermieri e indicare la strada. Quando sparì, spostai lo sguardo sulle ghigne livide e mostruose che adornavano la facciata del Castello del Brivido. Poco sopra, una scritta in caratteri gocciolanti poltiglia verde: ENTRATE SE NE AVETE IL CORAGGIO. Ripensai a Linda Gray, che era penetrata nel tunnel da viva per essere portata via parecchie ore dopo, stretta nel gelo della morte. Forse mi capitò perché Erin stava arrivando con il suo carico di informazioni. Di notizie che la mettevano a disagio.Mi tornò in mente anche l’assassino della ragazza.

Avrebbe potuto essere chiunque, te compreso, aveva affermato la signora Shoplaw. Solo che sei castano invece di biondo e non hai la testa di un uccello tatuata sul dorso della mano. Era un’aquila o un falco, chissà.

I capelli di Eddie si erano ingrigiti anzitempo, tipico di chi fuma pesante da una vita, ma quattro anni prima avrebbero potuto essere biondi. E poi non si separava mai dai suoi guanti. Di sicuro era troppo vecchio per essere l’uomo che aveva accompagnato Linda Gray nel suo ultimo giro sull’attrazione al buio; sì, senza dubbio, però…

L’ambulanza era ormai vicinissima ma non ancora in vista. Lane si stava sbracciando davanti ai cancelli, facendo segno di affrettarsi. Al diavolo, mi dissi, e gli sfilai i guanti. Le mani erano ricoperte da lembi di pelle morta, i dorsi arrossati sotto uno spesso strato di crema bianca. Niente tatuaggi.

Solo psoriasi.

Non appena Parks venne caricato sull’ambulanza e portato d’urgenza al minuscolo ospedale di Heaven’s Bay, corsi al cacatanto più vicino e mi risciacquai la bocca per un’eternità. Ci impiegai parecchio a sbarazzarmi del sapore di quegli schifosi peperoncini verdi e da allora non ne ho mai più assaggiato uno.

Quando uscii, Lane Hardy era accanto alla porta. «Complimenti. Sei riuscito a rianimarlo.»

«Sarà ancora in pericolo di vita per un po’ e forse ha riportato delle lesioni cerebrali.»

«Forse sì, forse no, ma se non ci fossi stato tu, sarebbe già morto e sepolto. Prima la bambina, adesso il vecchio schifoso. Inizierò a chiamarti Gesù invece di Jonesy, perché sei davvero il salvatore.»

«Provaci e ci metto un attimo a pi-a-esse.» Ovvero, nella Parlata, «puntare a sud», in altri termini mollare baracca e burattini.

«D’accordo, ma ci hai saputo fare, Jonesy. Hai fatto il botto.»

«Se ripenso al sapore disgustoso che aveva in bocca… Dio mio!»

«Sì, non ne dubito, ma cerca di cogliere il lato positivo della faccenda. Con lui fuori gioco, tu sei libero, grazie Signore, finalmente libero, alleluia, alleluia! Non ti senti meglio?»

Aveva ragione.

Lane si sfilò dalla tasca posteriore un paio di guanti di cuoio. Quelli di Eddie. «Li ho trovati a terra. Perché glieli hai tolti?»

«Uh… per lasciargli respirare le mani.» Suonava come una solenne idiozia, ma la verità sarebbe sembrata ancora più stupida. Non riuscivo a credere che per un istante avessi considerato la possibilità che Eddie Parks fosse l’assassino di Linda Gray. «Durante la lezione di primo soccorso, ci hanno insegnato che le vittime d’infarto hanno bisogno di essere scoperte più che si può. Pare che serva.» Mi strinsi nelle spalle.

«Ah. Non si finisce mai di imparare.» Sbatacchiò insieme i guanti. «Credo che Eddie resterà via a lungo… sempre che ritorni, naturalmente. Perché non glieli vai a mettere nella tana?»

«Va bene», risposi, seguendo le sue istruzioni. Poche ore dopo, però, me li ripresi, insieme con qualcos’altro.

Non mi era mai piaciuto, d’accordo? Non si era mai sforzato di essere simpatico, né con me né con il resto del personale. Persino i vecchi dipendenti come Rozzie Gold e Pop Allen gli stavano alla larga. Ciò nonostante, alle quattro in punto di quel pomeriggio mi ritrovai all’ospedale di Heaven’s Bay a domandare se Edward Parks poteva ricevere visite. In una mano stringevo i suoi guanti, insieme con il qualcos’altro di cui ho parlato prima.

La volontaria dell’accettazione con i capelli azzurrini passò in rassegna due volte le sue scartoffie, scuotendo il capo, e stavo iniziando a pensare che Eddie non ce l’avesse fatta quando la donna esclamò: «Ah! È Edwin, non Edward! Stanza 315. Unità di terapia intensiva: dovrà avere il permesso della caposala».

La ringraziai e presi l’ascensore, uno di quelli enormi per il trasporto delle barelle. Era lento come la quaresima e mi lasciò tempo in abbondanza per chiedermi che cosa ci facessi lì. Sarebbe dovuto andare Fred Dean a trovarlo, in quanto responsabile del parco durante l’autunno. Però, ormai ero dentro, e in ogni caso forse non me l’avrebbero nemmeno fatto vedere.

Invece, dopo un’occhiata alla cartella, la caposala mi diede il via libera. «Ma forse sta dormendo», soggiunse.

«Si sa qualcosa delle sue?…» Mi picchiettai la testa con un dito.

«Funzioni cerebrali? Be’, è riuscito a dirci come si chiamava.»