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Ero ancora arrabbiato. «Luil’ha detto a me. Perché ne sei tanto sorpresa, visto che sei perfettamente a conoscenza della sua perspicacia?»

Quel pomeriggio ero condannato a fare piangere la gente. Prima Eddie e poi Annie. Invece Mike non si lasciò scappare una lacrima. Sembrava furibondo quanto me, ma non si lamentò quando la madre afferrò le maniglie della sedia a rotelle, improvvisò un dietrofront e la spinse in direzione delle porte a vetri. Pensai che ci sarebbe andata a sbattere contro, ma si aprirono appena in tempo grazie alla cellula fotoelettrica.

Che se ne vadano, rimuginai. Però ero stufo di dire addio alle donne della mia vita. Di lasciare che le cose accadessero, restando con le mani in mano e sentendomi da schifo.

Mi si avvicinò un’infermiera. «Tutto bene?»

«No», risposi, e li seguii fuori.

Annie si era fermata nel parcheggio di fianco all’ospedale, dove un cartello avvertiva: QUESTE DUE FILE SONO RISERVATE AI DISABILI. La parte posteriore del suo furgoncino era abbastanza ampia da ospitare la sedia a rotelle, una volta ripiegata. Aveva spalancato la portiera del passeggero, ma Mike si rifiutava di salire. Stringeva i braccioli con tutte le sue forze, le dita contratte e bianche come quelle di un cadavere.

«Entra!» gli gridò la madre.

Il ragazzino scosse il capo, senza guardarla.

«Entra, porca miseria!»

Stavolta non mosse neanche la testa.

Annie lo agguantò, strattonandolo. La sedia a rotelle aveva il freno inserito e si inclinò in avanti. L’afferrai appena prima che si ribaltasse, rovesciandoli contro la portiera aperta.

I capelli le si erano sparsi sul volto, quasi a nasconderle lo sguardo da folle, simile a quello di un cavallo imbizzarrito durante un temporale. « Levati! È tutta colpa tua! Non avrei mai dovuto…»

«Basta.» La presi per le spalle. Erano incavate, le ossa vicine alla pelle. È troppo impegnata a imbottire il figlio di calorie per badare a se stessa.

«Metti giù le ma…»

«Non ho intenzione di portartelo via», risposi. «È l’ultima cosa che voglio.»

Si calmò e con cautela mollai la presa. Durante la colluttazione, il romanzo che stava leggendo era cascato sull’asfalto. Mi chinai e lo raccolsi, infilandolo nel tascone posteriore della sedia.

«Mamma.» Mike le afferrò la mano. «Non sarà l’ultima volta che ci divertiamo insieme.»

E allora capii, ancor prima che le si incurvassero le spalle e partissero i singhiozzi. Non aveva paura che lo ficcassi sopra un’attrazione mozzafiato e che il cuore gli esplodesse per un picco di adrenalina. O che uno sconosciuto rapisse il cucciolo malato che amava con tutta se stessa. Si trattava di una convinzione ancestrale, tipica di una madre. Se non ci fossero state ultime volte,la vita sarebbe proseguita come al solito: i frullati per colazione al termine della passerella di legno, le serate con l’aquilone sulla spiaggia, in una specie di estate infinita. Ormai si erano spente le urla felici dei ragazzini sul Muro del Tuono e dei bambini che schizzavano giù dall’acquascivolo; l’aria si faceva sempre più fresca con il passare dei giorni. Nessuna estate dura per sempre.

Annie si coprì il volto con le mani, cercando di sedersi al posto del passeggero. Era troppo alto per lei e rischiò di scivolare. La aiutai, sorreggendola, ma non se ne rese quasi conto.

«Forza, portalo con te», affermò. «Non me ne frega un cazzo. Buttatevi giù da un aereo con il paracadute, se vi va. Però, non pretendete che partecipi alla vostra avventura da duri.»

«Non ci andrei mai senza di te», rispose il ragazzino.

A quella frase, si scoprì il volto e lo fissò. «Michael, tu sei tutto quello che ho. Lo capisci?»

«Sì.» Le strinse le mani tra le sue. «E io non ho altri che te.»

Dalla sua espressione, mi accorsi che un’idea simile non le era mai passata per la testa, non con una tale chiarezza.

«Aiutatemi a salire, per favore», ci pregò Mike.

Quando si fu sistemato (non ricordo di avergli agganciato la cintura di sicurezza; probabilmente a quei tempi non erano ancora obbligatorie), chiusi la portiera e girai attorno al muso del furgone insieme con Annie.

«La sedia», disse lei distrattamente. «Ce ne stavamo scordando.»

«Faccio io. Tu mettiti al volante e pensa solo a guidare. Tira dei respiri profondi.»

Non si ribellò. La reggevo per l’avambraccio, che potevo chiudere tutto nella mano. Fui tentato di farle notare che non poteva alimentarsi solo di romanzi difficili e noiosi, ma non aprii bocca. Quel pomeriggio era già stata obbligata a sentire abbastanza.

Piegai la sedia a rotelle e la stivai nel bagagliaio, impiegandoci più del dovuto per darle il tempo di ricomporsi. Tornai al sedile del guidatore, aspettandomi di trovare il finestrino alzato. Invece era ancora aperto. Si era asciugata naso e occhi, ravviando i capelli alla bell’e meglio.

«Non può andarci senza di te, e nemmeno io», affermai.

«Sono sempre preoccupata per lui», rispose, come se Mike non fosse lì ad ascoltare. «È in grado di vedere e capire molte cose, che poi gli provocano dolore. Sono la causa dei suoi incubi. È un ragazzino fantastico. Perché non può stare bene? Perché questo? Perché questo

«Non lo so», conclusi.

Si voltò, baciando il figlio sulla guancia, e tornò a fissarmi. Inspirò a fondo, ansiosa, lasciando poi uscire tutta l’aria. «Allora, quando andiamo?»

Di sicuro Il ritorno del renon era complicato come l’ultimo volumone di Annie, ma quella sera non sarei stato in grado di leggere nemmeno Il gatto col cappello.Dopo una cena a base di spaghetti in lattina, ignorando bellamente le acute osservazioni della signora Shoplaw sulla capacità di certi ragazzi di rovinarsi la salute, ritornai nella mia stanza e mi sedetti davanti alla finestra, lo sguardo perso nelle tenebre, intento ad ascoltare il costante andirivieni della risacca.

Stavo per appisolarmi quando la signora S. bussò con discrezione alla porta. «C’è una chiamata per te, Dev. È un ragazzino.»

Mi affrettai in salotto, immaginando di chi si trattasse.

«Mike?»

«Mamma sta dormendo. Ha detto che era stanca», sussurrò.

«Non mi stupisce», continuai, pensando a come ceravamo coalizzati contro di lei.

«Sì, siamo stati obbligati», rispose, quasi avessi espresso la mia riflessione a voce alta.

«Mike… mi stai leggendo nella mente? Ne sei capace?»

«Non lo so. A volte vedo e sento certe cose, niente di più. Oppure ho delle illuminazioni. Sono stato io a insistere che venissimo a casa del nonno. Secondo mamma era impossibile, ma ero sicuro che ce l’avrebbe permesso. Questa dote, se vogliamo chiamarla così, credo che arrivi da lui. È capace di guarire il prossimo. Cioè, spesso fa finta, ma a volte ci riesce sul serio.»

«Perché mi hai telefonato, Mike?»

«Per Joyland!» esclamò in preda all’eccitazione. «Potremo davvero salire sulla giostra dei cavalli e sulla ruota panoramica?»

«Ne sono praticamente certo.»

«E sparare al tirassegno?»

«Forse. Con il consenso di tua madre. L’intera faccenda è legata alla sua approvazione. In altre parole…»

«Ho capito benissimo», ribatté con una punta di insofferenza, per poi tornare il ragazzino euforico di prima. «Fantastico!»

«Niente giostre veloci, chiaro? Primo, perché sono ferme per l’inverno.» Anche la Ruota del Sud lo era ma, con l’aiuto di Lane Hardy, avrei impiegato meno di un’ora a rimetterla in moto. «Secondo…»

«Sì, lo so, il mio cuore. Mi farò bastare la ruota. Pensa che la vediamo sempre dalla fine della passerella di legno. Dalla cima, sarà come osservare il mondo dal mio aquilone.»

Sorrisi. «Non ti sbagli di molto. Ma ricorda che l’ultima parola spetta a tua madre. Annie è il capo.»

«Ma se ci stiamo andando proprio per lei. Lo capirà non appena arrivata.» Sembrava misteriosamente sicuro di sé. «E anche per te, Dev. Ma soprattutto per la ragazza. È lì da troppo tempo. Vuole andarsene.»