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La nave era davvero affollata. Il campo di contenimento interno manteneva la gravità a un sesto del normale, ma dopo avere dormito in caduta libera, avevo l’impressione di trovarmi su un pianeta di tipo gioviano. Faceva uno strano effetto stare affollati tutti insieme in un solo piano dimensionale, lasciando che andasse sprecato il vasto spazio aereo più in alto. Nel ponte della biblioteca della nave del console, seduti al pianoforte, sulle panche, nelle poltrone superimbottite e sui gradini della piazzuola olografica, c’erano gli Ouster Navson Hamnim, Systenj Coredwell, Sian Quintana Ka’an dal risplendente piumaggio, i due argentei Ouster spazio-adattati Palou Koror e Drivenj Nicaagat, nonché Paul Uray e Am Chipeta. C’era Het Masteen e c’era il suo superiore, Ket Rosteen. C’era il colonnello Kassad, alto come i torreggianti Ouster, e la Dorje Phamo, con l’aria di vecchia e regale signora nella lunga veste grigio ghiaccio che si gonfiava elegantemente nella bassa gravità, e anche Lhomo, Rachel, Theo, A. Bettik, il Dalai Lama. Gli altri esseri senzienti non c’erano.

Parecchi di noi uscirono sulla loggia per guardare la superficie interna dell’Albero Stella rimpicciolire man mano che la nave saliva verso il sole centrale, sulla colonna di azzurra fiamma di fusione.

"Bentornato, colonnello Kassad" disse la nave, quando ci riunimmo nella biblioteca.

Inarcai il sopracciglio in direzione di Aenea, sorpreso che la nave riuscisse a ricordare un passeggero di tanti anni fa.

«Grazie, Nave» disse il colonnello. Pareva turbato, quasi al punto di rimuginare.

La risalita lontano dal guscio interno della biosfera Albero Stella mi diede un senso di vertigine diverso da quello che provavo nel guardare la sfera di un pianeta diventare sempre più piccola e restare indietro. Qui eravamo dentro la struttura orbitale; e mentre la vista da dentro i rami dell’Albero Stella era stata uno scenario di varchi aperti tra le foglie e i tronchi, fuggevoli visioni di campi di stelle sul lato opposto al sole e grandi spazi dappertutto, la vista da un centinaio di chilometri e in salita dava l’impressione di una superficie solida, con le enormi foglie ridotte a una distesa scintillante, in tutto simile a un grande oceano verde, concavo; la sensazione di trovarsi in una enorme ciotola senza la possibilità di uscirne era quasi opprimente.

I rami luccicavano di blu per l’aria intrappolata nei campi di contenimento e conferivano una sorta di bagliore azzurrino alle migliaia di chilometri di legno color del vino e di foglie tremolanti, come se l’intera superficie interna della biosfera avesse una carica elettrica. Da ogni parte c’era vita e movimento: angeli Ouster con ali di un chilometro non solo svolazzavano fra i rami e al di là delle foglie, ma erano lanciati in profondità nello spazio, all’interno verso il sole, più velocemente all’esterno, al di là dei sistemi di radici lunghe diecimila chilometri; una miriade di forme di vita più piccole luccicava nell’azzurro involucro di atmosfera: ragnatelidi radianti, magicinzie, pappagalli, arboricoli azzurri, scimmie della Vecchia Terra, grandi banchi di pesci tropicali che nuotavano in gravità zero alla ricerca delle regioni appannate dalle comete, aironi azzurri, stormi di oche e di colombacci marziani, focene della Vecchia Terra… Fummo portati fuori prima che potessi classificare una minima frazione di ciò che vedevo.

Più avanti divennero palesi le dimensioni delle forme di vita più grandi e degli sciami di forme di vita. Da alcune migliaia di chilometri vedevo, in "alto", i luccicanti armenti di piastrine azzurre in compagnia dei senzienti Akerataeli. Dopo il primo incontro lì con le due creature del pianeta di nuvole, avevo domandato a Aenea se nella biosfera erano presenti altri Akerataeli. "Ce n’è ancora qualcuno" aveva risposto Aenea. "Circa seicento milioni." Adesso li vedevo muoversi senza fatica nelle correnti d’aria da tronco a tronco, estensioni di centinaia di chilometri, in sciami di migliaia, forse decine di migliaia.

E con essi c’erano gli ubbidienti servitori: calamari celesti e zeplin e meduse trasparenti ed enormi sacche di gas munite di tentacoli, simili a quella che mi aveva mangiato nel pianeta di nuvole. Ma più grandi. Sul pianeta di nuvole avevo stimato che il mostruoso calamaro fosse lungo forse dieci chilometri, ma questi animali da lavoro simili a dirigibili erano di sicuro lunghi parecchie centinaia di chilometri, forse di più, contando gli innumerevoli tentacoli, viticci, flagelli, fruste, code, sonde e proboscidi. Capii, guardandoli, che tutte le gigantesche bestie da soma degli Akerataeli erano impegnate in lavori: intrecciare rami e steli e capsule in elaborati biodisegni, potare dall’Albero Stella rami morti e foglie larghe come città, sistemare strutture progettate dagli Ouster o trasportare materiali da una parte all’altra della biosfera.

«Quanti sono gli zeplin controllati dagli Akerataeli qui sull’Albero Stella?» domandai a Aenea, approfittando di un momento in cui era libera.

«Non so» mi rispose. «Chiediamo a Navson.»

«Non ne abbiamo idea» ci disse Navson. «Si riproducono secondo le necessità di lavoro. Gli stessi Akerataeli sono un perfetto esempio di organismo sciame, di mente alveare: le entità disco, singolarmente, non sono senzienti… in parallelo, sono brillanti. Qui i calamari celesti e altre creature di pianeti gioviani si sono riprodotti secondo necessità, per più di settecento anni standard. Azzarderei che ce ne siano parecchie centinaia di milioni al lavoro nella biosfera… forse un miliardo, a questo punto.»

Fissai le minuscole forme sulla superficie sempre più piccola della biosfera. Un miliardo di creature, ciascuna grande come l’altopiano punta d’Ala del mio pianeta natale…

Ancora più avanti, divennero evidenti gli spazi vuoti fra i rami, un milione di chilometri sopra di noi e mezzo milione sotto di noi. La sezione da dove eravamo partiti era la più antica e la più fitta, ma a grande distanza lungo la curvatura interna della biosfera c’erano interruzioni e divisioni, alcune progettate, altre ancora da riempire con materiale vivente. Comunque anche lì lo spazio era pieno di lavoro e di movimento: comete descrivevano archi fra radici, rami, foglie e tronchi, secondo precise traiettorie, e il loro carico d’acqua in superficie era volatilizzato con raggi di calore, regolati dagli Ouster e alimentati dagli erg, emessi dai tronchi e da foglie riflettenti geneticamente adattate che creavano specchi larghi centinaia di chilometri. Mutata l’acqua in vapore, grandi nuvole andavano alla deriva fra le radici striscianti e inumidivano i miliardi di chilometri quadrati di fogliame.

Più grandi delle comete erano le decine di asteroidi accuratamente posizionati e di lune custodi che si muovevano qualche migliaio o decine di migliaia di chilometri sopra la superficie interna ed esterna della sfera vivente: rettificavano la deriva orbitale, creavano maree e forze d’attrazione per favorire la corretta crescita dei rami, facevano ombra sulla superficie interna della biosfera dove l’ombra era necessaria, servivano da basi d’osservazione e da baracche per gli innumerevoli giardinieri Ouster e templari che sorvegliavano il progetto di decennio in decennio e di secolo in secolo.

E ora, a mezzo minuto luce dalla biosfera, accelerando verso il sole come in cerca del punto di traslazione Hawking, nella vasta cavità della sfera verde si vedeva altro traffico: navi da guerra Ouster, tutte obsolete per gli standard della Pax, con bolle per il motore Hawking o con enormi campi di contenimento a endoreattore; cacciatorpediniere ad alta accelerazione di tipo antiquato e navi C3 di un’epoca da tempo passata; eleganti mercantili sunjammer con grandi vele curve di monofilm luccicante, e dappertutto singoli angeli Ouster che battevano le ali scintillanti per bordeggiare verso il sole o per tornare a precipizio verso la biosfera.