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«Raul» disse Aenea. Con un gesto mi invitò ad avvicinarmi.

Forse, pensai, questa era la spiegazione che volevo, forse dall’altra parte della stanza aveva letto la mia espressione e aveva visto il mio tumulto interiore. Invece Aenea disse solo: «Palou Koror e Drivenj Nicaagat mi mostreranno cosa si prova a volare come un angelo. Vuoi venire con me? Lhomo ha già accettato».

"Volare come un angelo?" Per un momento fui sicuro che straparlasse.

«Hanno una dermotuta in più, se vuoi venire» diceva intanto Aenea. «Ma dobbiamo muoverci subito. Siamo quasi tornati all’Albero Stella e la nave attraccherà fra qualche minuto. Het Masteen deve continuare il carico e l’approvvigionamento della Yggdrasill e io ho cento cose da fare prima di domani.»

«Va bene» dissi, senza sapere a che cosa acconsentissi. «Vengo anch’io.» In quel momento ero abbastanza ingrugnito da pensare che la risposta era una meravigliosa metafora per tutti i miei dieci anni di odissea: "Va bene, non so cosa faccio né dove mi caccio, ma conta anche me nel gruppo".

Uno degli Ouster adattati allo spazio, Palou Koror, ci diede le dermotute. Avevo già usato le dermotute, naturalmente… l’ultima volta risaliva solo a qualche settimana prima (anche se mi parevano mesi o anni) quando con Aenea e A. Bettik avevo scalato il T’ai Shan, il Grande Picco del Regno di mezzo… ma non avevo mai visto né toccato una dermotuta come quelle.

L’invenzione delle dermotute risale a parecchi secoli fa e si basa sull’idea che il modo migliore per non esplodere nel vuoto non è l’ingombrante tuta pressurizzata dei primi giorni del volo spaziale, ma un rivestimento così sottile da consentire la traspirazione anche mentre protegge la pelle dal terribile calore, dal freddo e dal vuoto dello spazio. In tutti questi secoli le dermotute non sono cambiate molto, se non per incorporare filamenti per riciclare l’aria e pannelli osmotici. La mia ultima dermotuta era un manufatto dell’Egemonia, abbastanza efficiente, prima che con le sue unghie Rhadamanth Nemes la riducesse a brandelli.

Ma questa non era una dermotuta normale. Argentea, malleabile come mercurio, mi diede la sensazione, quando Palou Koror me la passò, di un caldo grumo di protoplasma privo di peso. Si muoveva davvero come mercurio. No, si muoveva e scorreva come una fluida creatura vivente. Per la sorpresa la lasciai quasi cadere; la presi al volo con l’altra mano e me la vidi rifluire di alcuni centimetri su per il polso e il braccio, come un alieno che assorbisse carne.

Di sicuro mi lasciai sfuggire un’esclamazione, perché Aenea disse: «Sì, Raul, è viva. Quella dermotuta è un organismo, geni modificati su misura e interventi di nanotecnologia, ma un organismo spesso solo tre molecole».

«Come faccio a metterla?» dissi, guardandola rifluire su per il braccio fino alla manica e poi ritrarsi. Sospettai che quella creatura fosse più un carnivoro che un indumento. E poi, il guaio delle dermotute è che vanno portate a contatto della pelle: non si possono tenere strati di stoffa sotto una dermotuta. In nessuna parte del corpo.

«Ah, è facile» disse Aenea. «Niente acrobazie, come per le vecchie dermotute. Basta spogliarsi, restare immobili e lasciarsela cadere sulla testa. La dermotuta rifluisce addosso. Dobbiamo sbrigarci.»

La spiegazione non mi ispirò grande entusiasmo.

Aenea e io chiedemmo permesso, salimmo la scala a chiocciola e andammo nella stanza da letto in punta della nave. Ci spogliammo rapidamente. Guardai la mia amata, in piedi, nuda, accanto all’antico (e comodo, come ben ricordavo) letto del console, e fui sul punto di suggerirle un modo migliore di passare il tempo prima dell’attracco. Ma Aenea agitò il dito per ammonirmi, alzò sopra la testa il grumo di argenteo protoplasma e se lo lasciò cadere nei capelli.

Era allarmante, guardare quell’organismo color argento inghiottire Aenea, fluire su di lei dai capelli come metallo liquido, coprirle gli occhi e la bocca e il mento, scorrerle lungo il collo come lava riflettente, poi coprirle spalle, seni, ventre, fianchi, pube, cosce, ginocchia… Alla fine Aenea alzò prima un piede, poi l’altro, e il rivestimento fu completo.

«Tutto a posto?» dissi, con una voce preoccupata, mentre il mio grumo mi pulsava nella mano, ansioso di mettere le grinfie su di me.

Aenea, o la statua cromata che era stata Aenea, alzò il pollice e poi si indicò la gola. Capii che cosa voleva dire: come per le dermotute dell’Egemonia, da ora in poi ci saremmo parlati mediante i microfoni di subvocalizzazione.

Sollevai a due mani la massa pulsante, trattenni il fiato, chiusi gli occhi, me la lasciai cadere sulla testa.

Occorsero meno di cinque secondi. Per un terribile istante fui sicuro di non poter respirare, sentendo la massa viscida coprirmi il naso e la bocca; ma poi ricordai di inspirare e respirai ossigeno fresco e puro.

"Mi senti, Raul?" La voce di Aenea era molto più distinta di quanto non fosse stata attraverso gli auricolari della vecchia dermotuta.

Risposi con un cenno affermativo, poi subvocalizzai: "Sì. Fa uno strano effetto!"

"Signora Aenea, signor Endymion, siete pronti?"

Impiegai un secondo per capire che era la voce del secondo Ouster spazio-adattato, Drivenj Nicaagat, sulla banda della dermotuta. Avevo già udito la sua voce, ma trasmessa mediante sintetizzatore di linguaggio. Sulla linea diretta, era perfino più chiara e melodiosa del cinguettio di Sian Quintana Ka’an.

"Siamo pronti" rispose Aenea. Scendemmo la scala a chiocciola, passammo in mezzo alla folla e uscimmo sulla loggia.

"Buona fortuna, signora Aenea, signor Endymion." Era A. Bettik, che ci parlava per mezzo della nave. L’androide toccò la spalla a tutt’e due mentre noi ci avvicinavamo alla balaustra della loggia dove aspettavano Koror e Nicaagat.

Anche Lhomo ci aspettava: l’argentea dermotuta gli metteva in rilievo i muscoli delle braccia e delle cosce, il ventre piatto. Per un attimo mi sentii impacciato: da un lato avrei voluto indossare qualcosa sopra lo strato di fluido argenteo spesso millesimi di millimetro, dall’altro rimpiangevo di non essermi impegnato per mantenere in forma il fisico. Aenea era bellissima, pareva una statua cromata. Ero lieto che nessuno, a parte l’androide, ci avesse seguito sulla loggia.

Ora la nave si trovava a meno di duemila chilometri dall’Albero Stella e decelerava forte. Palou Koror saltò con facilità sulla sottile balaustra della loggia, tenendosi in equilibrio nella gravità un sesto del normale. Drivenj Nicaagat seguì il suo esempio, imitato da Lhomo e poi da Aenea; per ultimo, con molta meno grazia, mi unii a loro. Avevo la schiacciante sensazione di trovarmi a grande altezza e allo scoperto: il grande bacino verde dell’Albero Stella sotto di noi, le pareti di foglie che si alzavano a distanze incommensurabili su tutti i lati, la massa della nave che descriveva una curva e spariva sotto di noi in equilibrio sulla sottile colonna di fiamma di fusione come un edificio traballante su un fragile pilastro azzurrino. Provai un senso di nausea: stavamo per saltare nel vuoto.

"Non preoccupatevi, staccherò il campo di contenimento nel preciso istante in cui lo attraverserete e passerò ai repulsori EM finché non sarete lontano dai gas di scarico del motore." Capii che a parlare era la nave. Non avevo idea di che cosa stavamo per fare.

"Le tute dovrebbero darvi una rozza idea del nostro adattamento" diceva intanto Palou Koror. "Certo, per quelli fra noi che hanno scelto l’integrazione totale, non sono le tute semisenzienti e i loro microprocessori molecolari e consentirci di vivere e muoverci nello spazio, ma i circuiti adattati nella nostra pelle, sangue, occhi, cervello."

"Come facciamo a…" iniziai, trovando una certa difficoltà a subvocalizzare, come se la bocca asciutta avesse effetto sui muscoli della gola.

"Tranquilli" disse Nicaagat. "Non apriremo le ali finché non saremo alla distanza giusta. Le ali non si urteranno: i campi non lo permetterebbero. I comandi sono del tutto intuitivi. I sistemi visivi della tuta dovrebbero interfacciarsi col vostro sistema nervoso e con i neurosensori, richiamando i dati quando occorre."