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— Sogni? — dice Hunt. — Significa che anche adesso sogna quel che accade nella Rete?

— Sì. — Gli parlo dei sogni su Gladstone, della distruzione di Porta del Paradiso e di Bosco Divino, delle immagini confuse di Hyperion.

Hunt passeggia avanti e indietro nella stanzetta, getta sulle pareti scabre una lunga ombra. — Può mettersi in contatto con loro?

— Con quelli che sogno? Con Gladstone? — Rifletto un secondo. — No.

— Ne è certo?

Provo a spiegarglielo. — Non faccio parte dei sogni, Hunt. Non ho… voce, presenza… non posso mettermi in contatto con quelli che sogno.

— Ma a volte sogna ciò che pensano?

Mi rendo conto che è vero. Vicino alla verità. — Intuisco quel che sentono…

— Allora non può lasciare una traccia nella loro mente… nella loro memoria? Far sapere loro dove ci troviamo?

— No.

Hunt crolla sulla poltrona ai piedi del letto. A un tratto sembra vecchissimo.

— Leigh — dico — anche se potessi comunicare con Gladstone o con gli altri… ma non posso… quale vantaggio ne avremmo? Le ho detto che questa è una riproduzione della Vecchia Terra, nella Nube di Magellano. Anche alle velocità da balzo quantico del motore Hawking, passerebbero secoli, prima che qualcuno ci raggiungesse.

— Potremmo avvisarli — dice Hunt, con voce così stanca da sembrare quasi astiosa.

— Avvisarli di cosa? Tutti i peggiori incubi di Gladstone si stanno avverando. Crede che ora si fidi del Nucleo? Proprio per questo il Nucleo ha potuto rapirci in maniera così clamorosa. Gli eventi si susseguono troppo in fretta perché Gladstone o qualsiasi altro nell'Egemonia possa intervenire.

Hunt si strofina gli occhi, unisce le dita. Il suo sguardo non è molto amichevole. — Lei è davvero la personalità ricuperata di un poeta? Non rispondo.

— Reciti una poesia. Ne crei una.

Scuoto la testa. È tardi, tutt'e due siamo stanchi e spaventati, il cuore non si è ancora calmato per l'incubo che era più di un incubo. Non lascerò che Hunt mi faccia arrabbiare.

— Forza — dice. — Mi mostri di essere la nuova versione migliorata di Bill Keats.

— John Keats — lo correggo, calmo.

— Fa lo stesso. Andiamo, Severn. O John. O come diavolo dovrei chiamarla. Reciti una poesia.

— E va bene — dico, fissandolo negli occhi. — Ascolti.

C'era un ragazzo cattivo
ed era cattivo davvero
perché nulla faceva se non
scribacchiare poesie…
prese in mano
un calamaio
per far paio
con la penna
come benna
nell'altra
e lontano
con chiasso
corse via
ai monti
e fonti
e fantasmi
e poste
e streghe
e fosse,
e scrisse
col manto
se il tempo
era freddo
(ah, la gotta)
e senza
se il tempo
era caldo.
Oh, l'incanto
quando scelse
d'andar sempre dritto
a nord
a nord
d'andar sempre dritto
a nord!

— Non so — dice Hunt. — Non mi sembrano versi che avrebbe scritto un poeta la cui fama è durata mille anni.

Scrollai le spalle.

— Stanotte sognava Gladstone? È accaduto qualcosa che l'ha fatta piangere?

— No. Non sognavo Gladstone. Era un… un incubo vero, tanto per cambiare.

Hunt si alza, solleva la lampada, si prepara a portare via dalla stanza l'unica luce. Odo la fontana nella piazza, i colombi sul davanzale.

— Domani — dice Hunt — daremo un senso a tutto e cercheremo la via per uscirne. Se ci hanno teleportato qui, ci sarà un teleporter per andar via.

— Sì — dico, pur sapendo che non è vero.

— Buona notte. E basta incubi, va bene?

— Basta incubi — rispondo, pur sapendo che è ancor meno vero.

Moneta trascinò Kassad lontano dallo Shrike e con la mano protesa parve tenere a bada la creatura, mentre estraeva dalla cintura della dermotuta un toroide azzurro e lo agitava alle proprie spalle. A mezz'aria si librò un ovale dorato, ardente, alto due metri.

— Lasciami — borbottò Kassad. — Facciamola finita. — C'erano schizzi di sangue dove gli artigli dello Shrike avevano fatto grossi strappi nella tuta del colonnello. Il piede destro penzolava come reciso; Kassad non vi si poteva appoggiare e solo il fatto di essere avvinghiato allo Shrike, quasi trascinato in una folle parodia di danza, l'aveva mantenuto dritto mentre combattevano.

— Lasciami andare — ripeté Fedmahn Kassad.

— Zitto — disse Moneta; e poi, più dolcemente: — Zitto, amore mio. — Lo trascinò al di là dell'ovale di oro: sbucarono insieme in una luce accecante.

Pur sofferente e sfinito, Kassad fu abbacinato dallo spettacolo. Non erano su Hyperion, ne era sicuro. Una vasta pianura si estendeva fino a un orizzonte più lontano di quanto logica ed esperienza ammettessero. Un'erba corta e arancione, se erba era, cresceva sulle piane e sulle basse colline come peluria sulla schiena di un bruco immenso; cose che forse erano alberi si ergevano come statue di fibrocarbonio, tronchi e rami quasi simili a disegni di Escher nella loro barocca improbabilità, foglie che erano una confusione di ovali blu scuro e viola, lucide e protese verso un cielo di vivida luce.

Ma non luce del sole. Mentre Moneta lo portava via dal portale che si richiudeva (Kassad non lo considerò un teleporter, convinto che li avesse trasportati nel tempo, oltre che nello spazio), verso un folto di quegli alberi impossibili, il colonnello girò gli occhi al cielo e provò qualcosa di molto simile all'ammirazione. Il cielo risplendeva come quello di Hyperion in pieno giorno; risplendeva come il mezzodì in un viale di negozi su Lusus; risplendeva come a mezza estate sull'altopiano Tharsis nell'arido mondo natale di Kassad, Marte. Ma questa non era luce solare: il cielo era pieno di stelle e di costellazioni e di ammassi stellari e di una galassia così ricca di soli da sembrare quasi priva di chiazze buie fra le luci. Pareva di essere in un planetario con dieci proiettori, pensò Kassad. D'essere al centro della galassia.

Il centro della galassia.

Alcuni uomini e donne in dermotuta uscirono dall'ombra degli alberi-Escher e circondarono Kassad e Moneta. Uno degli uomini, un gigante anche per gli standard marziani di Kassad, guardò il colonnello, alzò la testa in direzione di Moneta; Kassad non udì niente, non percepì niente attraverso i ricevitori radio e a banda compatta della tuta, ma capì che i due comunicavano tra loro.

— Distenditi — disse Moneta, deponendo Kassad sull'erba arancione e vellutata. Il colonnello cercò di mettersi a sedere, di parlare, ma Moneta e il gigante lo spinsero supino, tanto che il campo visivo di Kassad fu pieno delle foglie viola che si agitavano lentamente e del cielo colmo di stelle.

L'uomo toccò di nuovo Kassad e la dermotuta si disattivò. Il colonnello cercò di alzarsi, cercò di coprirsi, accorgendosi di essere nudo davanti alla piccola folla radunata intorno a lui, ma la mano di Moneta lo tenne fermo. Tra il dolore e il senso di dislocazione, sentì vagamente che l'uomo gli toccava le braccia e il petto squarciati, gli passava la mano rivestita di argento lungo la gamba fino al punto in cui il tendine di Achille era stato reciso. Kassad provò un senso di freddo a ogni tocco del gigante, poi sentì la coscienza andare alla deriva come un pallone, innalzarsi molto al di sopra della piana rossiccia e delle alture ondulate, verso il compatto baldacchino di stelle dove una figura enorme aspettava, scura come una nube gonfia di pioggia torreggiante all'orizzonte, massiccia come montagna.