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Penso a questo, mentre siedo nella stanza buia e guardo la piazza buia, e intanto ascolto il gorgoglio nel petto e nella gola, sento il dolore simile a fuoco nelle viscere e quello, peggiore, delle grida nella mente: grida di Martin Sileno sull'albero, che soffre perché ha scritto la poesia che sono stato troppo fragile o codardo per terminare; grida di Fedmahn Kassad, che si prepara a morire sotto gli artigli dello Shrike; grida del Console, costretto una seconda volta a tradire; grida che sgorgano dalla gola di migliaia di Templari che piangono la morte del loro mondo e del confratello Het Masteen; grida di Brawne Lamia, che crede morto il suo amato, il mio gemello; grida di Paul Duré, che lotta contro le ustioni e lo choc del ricordo, fin troppo consapevole del crucimorfo in attesa sul suo petto; grida di Sol Weintraub, che batte a terra i pugni e chiama a gran voce la figlia, con gli strilli infantili di Rachel ancora nelle orecchie.

— Maledizione — dico piano, battendo il pugno sulla pietra e la calcina del davanzale. — Maledizione.

Dopo un poco, quando già il cielo impallidisce e promette l'alba, mi scosto dalla finestra e mi distendo sul letto, solo un momento per chiudere gli occhi.

Il governatore generale Theo Lane si svegliò al suono di musica e si guardò intorno: riconobbe, come se li avessi sognati, la vasca di liquido nutritivo e l'ambulatorio della nave. Indossava un morbido pigiama nero e aveva dormito sul lettino per le visite mediche. A poco a poco, con brandelli di ricordi, ricucì le ultime dodici ore: era stato tolto dalla vasca di cura, gli avevano applicato dei sensori, il Console e un altro uomo, chini su di lui, gli ponevano domande… e lui rispondeva come se fosse davvero cosciente; poi di nuovo sonno, sogni di Hyperion e delle sue città in fiamme. No, non sogni.

Theo si alzò a sedere, quasi galleggiò giù dal lettino, trovò i vestiti, puliti e ben piegati sopra un vicino ripiano, si vestì in fretta ascoltando la musica alzarsi e affievolirsi con un ritmo ossessionante che suggeriva che fosse dal vivo, non registrata.

Salì la breve scaletta del ponte di soggiorno e si bloccò, sorpreso: la nave era aperta, la loggia sporgeva all'esterno, il campo di contenimento non era in funzione. La gravità molto bassa, un quinto di quella di Hyperion, forse un sesto della gravità standard, bastava appena a tenerlo fermo sul ponte.

La vivida luce del sole entrava dalla porta spalancata della loggia dove il Console suonava l'antiquato strumento che aveva chiamato pianoforte. Theo riconobbe l'archeologo, Arundez, appoggiato allo stipite, con un bicchiere in mano. Il Console suonava un brano molto antico e molto complesso: le dita sfioravano la tastiera, simili a una macchia confusa di movimento. Theo si avvicinò, aprì bocca per mormorare qualcosa ad Arundez, si bloccò, stupito, a occhi spalancati.

Al di là della loggia, trenta metri più in basso, la vivida luce del sole illuminava un prato di un verde brillante che si estendeva fino all'orizzonte troppo vicino. Su quel prato, gruppetti di persone beatamente sedute e sdraiate ascoltavano il concerto improvvisato. Ma che persone!

C'erano individui alti e magri, simili agli esteti di Epsilon Eridani, pallidi e calvi nelle vesti azzurre e leggere; ma accanto a loro c'era una sorprendente moltitudine di tipi, una varietà mai vista nella Rete: umani coperti di pelliccia e di scaglie; umani con il corpo e gli occhi simili a quelli delle api, ricettori sfaccettati e antenne; umani fragili e sottili come statue di fil di ferro, con le grandi ali nere che sporgevano dalle spalle minuscole e si ripiegavano come mantelli intorno al corpo; umani chiaramente progettati per mondi ad alta gravità, bassi, tozzi e muscolosi come bufali, al cui confronto i lusiani sarebbero parsi fragili; umani con il corpo corto e le braccia lunghe, coperti di pelo arancione, che solo il viso chiaro e sensibile distingueva dagli oranghi della Vecchia Terra estinti da gran tempo; e altri umani che somigliavano più a lemuridi, ad aquile, a leoni, a orsi, ad antropoidi che a uomini. Eppure Theo intuì subito che erano esseri umani, per quanto sconvolgenti fossero le differenze: lo sguardo attento, la posa rilassata, cento altri sottili attributi umani… fino al modo in cui una madre dalle ali di farfalla cullava fra le braccia il figlio dalle ali di farfalla… tutto testimoniava una comune umanità che Theo non poteva negare.

Melio Arundez si girò, sorrise nel vedere l'espressione di Theo e gli bisbigliò: — Ouster.

Sordito, Theo Lane non poté far altro che scuotere la testa e ascoltare la musica. Gli Ouster erano dei barbari, non quelle creature belle e a volte eteree creature. I prigionieri Ouster su Bressia, per non parlare dei cadaveri dei fanti, erano stati tutti di un tipo… alti, sì, magri, sì, ma molto più simili allo standard della Rete di quanto non lo fosse quello spiegamento di varietà strabiliante.

Theo scosse di nuovo la testa, mentre il brano di musica si alzava in un crescendo e terminava con una nota definitiva. Le centinaia di creature sul prato all'esterno applaudirono, con rumore alto e morbido nell'aria rarefatta, poi si alzarono, si sgranchirono e si allontanarono in varie direzioni… alcuni scomparvero in fretta al di là dell'impressionante orizzonte troppo vicino, altri aprirono ali di otto metri e volarono via. Altri ancora si avvicinarono alla nave.

Il Console si alzò, vide Theo e sorrise. Gli strinse la spalla. — Theo, appena in tempo. Fra poco inizieremo i negoziati.

Theo Lane batté le palpebre. Tre Ouster atterrarono sulla loggia e ripiegarono dietro di sé le grandi ali. Ciascuno di loro aveva folta pelliccia maculata e striata in modo diverso, organica e convincente come quella di un animale selvatico.

— Delizioso come sempre — disse al Console l'Ouster più vicino. Aveva faccia da leone… naso largo, occhi di oro incorniciati da una gorgiera di pelo fulvo. — L'ultimo brano era la Fantasia in Re minore, op. 397, di Mozart, vero?

— Esatto — disse il Console. — Freeman Vanz, le presento Theo Lane, governatore generale del Protettorato dell'Egemonia Hyperion.

Lo sguardo da leone si spostò su Theo. — È un onore — disse Freeman Vanz, tendendo la mano irsuta.

Theo la strinse. — Piacere di conoscerla, signore — rispose. Si domandò se in realtà non fosse ancora nella vasca di ricupero e sognasse tutto. La luce del sole sul viso e la stretta decisa gli suggerirono altrimenti.

Freeman Vanz tornò a girarsi verso il Console. — A nome dell'Aggregato, la ringrazio per il concerto. Sono trascorsi troppi anni dall'ultima volta che l'abbiamo ascoltata suonare, amico mio. — Si guardò intorno. — Possiamo discutere qui o in uno dei complessi amministrativi, come preferisce.

Il Console esitò solo un secondo. — Noi siamo in tre, Freeman Vanz. Voi siete molti. Verremo da voi.

La testa leonina annuì e lanciò un'occhiata al cielo. — Vi manderemo una barca per la traversata — disse. Con gli altri due si accostò alla balaustra e saltò giù; cadde per diversi metri, prima di spiegare le ali complesse e prendere il volo verso l'orizzonte.

— Gesummio — mormorò Theo. Afferrò per il braccio il Console. — Dove siamo?

— Nello Sciame — rispose il Console, coprendo la tastiera dello Steinway. Li precedette all'interno, attese che Arundez si scostasse e ritirò la loggia.

— E cosa negozieremo? — domandò Theo.

Il Console si strofinò gli occhi. Aveva l'aspetto di chi ha dormito poco o niente nelle ultime dodici ore.

— Dipende dal prossimo messaggio del PFE Gladstone — disse; con un cenno indicò la piazzuola già annebbiata da colonne di dati. La nave stava decodificando una raffica astrotel.

Meina Gladstone entrò nella clinica della Casa del Governo e fu scortata da medici in attesa nel reparto dov'era ricoverato padre Paul Duré. — Come sta? — chiese al primario, medico personale del PFE.