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C'è un certo solipsismo nelle malattie gravi che richiedono tutta la propria attenzione con la certezza con cui un buco nero astronomico afferra qualsiasi cosa abbia la sfortuna di cadere al di qua del suo raggio critico. Il giorno si trascina; sono acutamente consapevole del movimento della luce del sole sulla parete scabra, delle lenzuola sotto le mani, della febbre che si alza in me come nausea e si estingue nella fornace della mente, e soprattutto, del dolore. Non il dolore mio, adesso, perché qualche ora o giorno di costrizione in gola e di bruciore nel petto sono sopportabili, quasi benvenuti, come un vecchio amico seccante incontrato in una città straniera; ma il dolore degli altri… di tutti gli altri. Mi colpisce la mente come fracasso di ardesia che si frantumi, come maglio sull'incudine; e non c'è modo di sfuggirgli.

Il mio cervello lo riceve come frastuono e lo ristruttura come poesia. Tutto il giorno e tutta la notte il dolore dell'universo fluisce in me e vaga per i corridoi febbricitanti della mia mente, sotto forma di versi, immagini, immagini in versi, la danza intricata e infinita del linguaggio, ora calmante come un a solo di flauto, ora acuta e stridula e irritante come una decina di orchestre, ma sempre versi, sempre poesia.

A un certo punto, verso il tramonto, mi desto dal dormiveglia e così mando in frantumi il sogno dello scontro fra il colonnello Kassad e lo Shrike per la vita di Sol e di Brawne Lamia. Vedo Hunt seduto alla finestra: la luce della sera dà al suo viso la sfumatura della terracotta.

— È ancora lì? — domando, con voce simile al raschiare di lima su pietra.

Hunt sobbalza, poi si gira verso di me, con un sorriso di scusa e il primo rossore che abbia mai visto su quei lineamenti severi. — Lo Shrike? — dice. — Non so. Da un po' di tempo non l'ho più visto. Ma ne sento la presenza! — Mi guarda. — Come sta?

— Da moribondo. — Subito mi pento dell'indulgenza di questa risposta impertinente, per quanto esatta, quando vedo che addolora Hunt. — Non è niente — dico, in tono quasi gioviale. — L'ho già fatto. Non è come se fossi io a morire. Esisto come personalità nel profondo del TecnoNucleo. Muore solo questo corpo. Il cìbrido di John Keats. Questa ventisettenne illusione di carne e sangue e associazioni presi in prestito.

Hunt viene a sedersi sul bordo del letto. Mi accorgo con sorpresa che durante il giorno ha cambiato le lenzuola e sostituito con il suo il copriletto macchiato di sangue. — La sua personalità è una IA nel Nucleo — dice. — Quindi lei deve essere in grado di accedere alla sfera dati.

Scuoto la testa, troppo stanco per discutere.

— Quando è stato rapito dai Philomel, l'abbiamo rintracciato tramite la sua via di accesso alla sfera dati — insiste. — Non deve contattare Gladstone di persona. Le basta lasciare un messaggio dove la Sicurezza può trovarlo.

— No — replico, con voce stridula. — Il Nucleo non vuole.

— Glielo impediscono? La bloccano?

— Non ancora. Ma lo farebbero. — Parlo staccando le parole, fra un ansito e l'altro, disteso come un fragile uovo nel nido. A un tratto ricordo un biglietto inviato alla cara Fanny, poco dopo una grave emorragia, ma quasi un anno prima che il male mi uccidesse. Le avevo scritto: "Se dovessi morire" ho detto a me stesso "non mi sono lasciato alle spalle opere immortali… nulla per rendere orgogliosi del mio ricordo gli amici… ma ho amato il principio della beltà in tutte le cose e, se avessi avuto tempo, avrei fatto in modo di essere ricordato". Queste parole mi colpiscono ora come futili, egocentriche, sciocche e ingenue… eppure ci credo ancora disperatamente. Se avessi avuto tempo… i mesi trascorsi su Esperance, fingendo di essere un pittore visuale; i giorni sprecati con Gladstone nelle sale del governo, quando invece avrei potuto scrivere…

— Come lo sa, se non prova? — domanda Hunt.

— Cosa? — replico. Il semplice sforzo di due sillabe mi fa tornare la tosse e lo spasmo termina solo quando sputo sfere semisolide di sangue nella bacinella che Hunt si è affrettato a portarmi. Mi distendo, cerco di mettere a fuoco il viso di Hunt. Comincia a farsi buio, nella stanzetta, e nessuno di noi due ha acceso la lampada. Fuori, la fontana gorgoglia rumorosamente.

— Cosa? — ripeto, cercando di restare lì, anche se il sonno e i sogni mi tirano via. — Se non provo cosa?

— A lasciare un messaggio tramite la sfera dati — mormora lui. — A mettersi in contatto con qualcuno.

— E quale messaggio lascerei, Leigh? — domando. E la prima volta che lo chiamo per nome.

— Dove ci troviamo. Come il Nucleo ci ha rapito. Qualsiasi cosa.

— E va bene — dico, chiudendo gli occhi. — Farò il tentativo. Non credo che me lo permetteranno, ma prometto di tentare.

Sento che Hunt mi tiene la mano. Anche attraverso le maree vincenti dello sfinimento, l'improvviso contatto umano basta a farmi venire le lacrime agli occhi.

Farò il tentativo. Prima di arrendermi ai sogni o alla morte, farò il tentativo.

Il colonnello Fedmahn Kassad mandò il grido di battaglia della FORCE e si lanciò alla carica nella tempesta di sabbia per intercettare lo Shrike, prima che il mostro percorresse gli ultimi trenta metri che lo separavano dal punto in cui Sol Weintraub era accovacciato accanto a Brawne Lamia.

Lo Shrike esitò, girò la testa, con un bagliore rossastro degli occhi. Kassad armò il fucile di assalto e si lanciò a rompicollo giù per il pendio.

Lo Shrike traslò!

Kassad vide la traslazione nel tempo dello Shrike sotto forma di un lento offuscamento; notò, pur guardando l'avversario, che nella valle ogni movimento era cessato, che la sabbia restava immobile a mezz'aria, che la luce delle Tombe assumeva la solidità dell'ambra. Chissà come, la dermotuta di Kassad traslò con lo Shrike, lo seguì nei suoi movimenti nel tempo.

La creatura alzò di colpo la testa, attenta ora; protese le quattro braccia, come lame che scattino da un coltello a serramanico; con uno schiocco aprì le dita in un tagliente benvenuto.

Con una scivolata Kassad si arrestò a dieci metri dalla creatura e attivò il fucile di assalto; ridusse in scorie vetrificate la sabbia sotto lo Shrike, in una esplosione di raggio compatto alla massima potenza.

Lo Shrike fiammeggiò, mentre il carapace e le gambe simili a statue di acciaio riflettevano la luce infernale che l'avvolgeva. Poi tre metri di mostro iniziarono a sprofondare nella sabbia che gorgogliava in un lago di vetro fuso. Kassad gridò di trionfo e si avvicinò, tenendo sotto il raggio lo Shrike e il terreno, nello stesso modo in cui, da ragazzo, nei bassifondi di Tharsis, aveva spruzzato gli amici usando tubi di gomma per innaffiare, rubati.

Lo Shrike affondò. Le braccia smanacciarono sabbia e roccia, cercarono un appiglio. Volarono scintille. Lo Shrike traslò, con il tempo che scorreva all'indietro come un ologramma rovesciato, ma Kassad traslò con lui, rendendosi conto che Moneta lo aiutava, che la tuta della donna lavorava per la sua ma lo guidava attraverso il tempo; e poi innaffiò di nuovo il mostro, con un calore concentrato superiore a quello della superficie del sole, fuse la sabbia sotto di lui, guardò le rocce esplodere in fiamme.

Sprofondando in quel calderone di fiamme e di roccia fusa, lo Shrike gettò indietro la testa, spalancò l'ampio orifizio della bocca e mugghiò.

Kassad smise quasi di sparare, per la sorpresa. L'urlo dello Shrike risuonò come ruggito di drago misto allo scoppio di un razzo a fusione. Lo stridio legò i denti a Kassad, vibrò contro le pareti della valle, scagliò al suolo la sabbia sospesa a mezz'aria. Kassad commutò il fucile sul tiro solido ad alta velocità e scagliò diecimila micro-fléchettes contro la faccia della creatura.

Lo Shrike traslò, di anni, secondo la vertiginosa sensazione nelle ossa e nel cervello di Kassad; non furono più nella valle, ma a bordo di un carro a vela che procedeva rumorosamente nel mare di Erba. Il tempo tornò; lo Shrike balzò avanti, con le braccia metalliche sgocciolanti vetro fuso, e afferrò il fucile di assalto di Kassad. Il colonnello non mollò l'arma e i due barcollarono in tondo in una goffa danza: lo Shrike vibrava colpi, col secondo paio di braccia e una gamba ornata di punte di acciaio, Kassad spiccava balzi per schivare, sempre aggrappato disperatamente al fucile.