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Gladstone pensò alla Sala di Guerra: tre giganteschi locali collegati da teleporter a vista, attivati in permanenza, ma sempre tre sale, separate come minimo da migliaia di anni-luce di spazio reale, da decenni di tempo reale, anche viaggiando col motore Hawking. Ogni volta che Morpurgo o Singh o uno degli altri si muoveva da una mappa olografica al pannello per tracciare diagrammi, percorreva distese smisurate di spazio e di tempo. Per distruggere l'Egemonia o chiunque altro, al Nucleo bastava pasticciare con i teleporter, permettere un lieve "errore" nella designazione del bersaglio.

"Al diavolo tutto quanto" si disse Meina Gladstone; varcò il portale, per fare visita a Paul Duré, nell'infermeria della Casa del Governo.

39

Le due stanze al primo piano della casa in Piazza di Spagna sono piccole, strette, alte di soffitto e — a parte una fioca lampada in ogni camera, quasi accesa da fantasmi in attesa di una visita di altri fantasmi — buie. Il mio letto si trova nella più piccola delle due, quella rivolta alla piazza, anche se stanotte dalla finestra si vedono solo le tenebre segnate da ombre più fitte e sottolineate dal continuo gorgoglio dell'invisibile fontana del Bernini.

Rintocchi di campana segnano le ore: provengono da una delle torri gemelle di Trinità dei Monti, la chiesa acquattata come un grosso gatto fulvo nel buio in cima alla scalinata; ogni volta che sento le campane suonare i brevi rintocchi delle prime ore del mattino, immagino mani spettrali che tirino funi marce. O forse mani marce che tirino spettrali funi di campane: non so quale immagine si adatti meglio alle macabre fantasie di questa notte infinita.

La febbre mi prende, stanotte, umida e pesante e soffocante come una spessa coperta zuppa di acqua. La pelle prima scotta, poi è viscida al tatto. Due volte ho avuto attacchi di tosse; al primo, Hunt è arrivato di corsa dal divano nell'altra stanza e ha sbarrato gli occhi alla vista del sangue che avevo vomitato sul copriletto di damasco; la seconda volta, ho cercato di soffocare meglio che potevo la tosse, sono andato barcollando alla catinella posta sul cassettone e vi ho sputato meno sangue nero e catarro scuro. Hunt non si è svegliato, la seconda volta.

Essere di nuovo qui. Fare tanta strada, per venire in queste stanze buie, in questo letto sinistro. Quasi ricordo di essermi svegliato qui, miracolosamente guarito; quasi ricordo il "vero" Severn e il dottor Clark e perfino la piccola signora Angeletti nell'altra stanza. Quel periodo di convalescenza dalla morte; quel periodo di comprensione di non essere Keats, di non trovarmi sulla vera Terra, di non essere nel secolo in cui avevo chiuso gli occhi la notte prima… di non essere umano.

A un'ora imprecisata, dopo le due, mi addormento e sogno. Un sogno che non ho mai fatto prima. Salgo lentamente nel piano dati, attraverso la sfera dati, entro nella megasfera e la percorro, per giungere infine in un luogo che non conosco, che non ho mai sognato… un luogo fatto di spazi infiniti, tranquilli, di colori indescrivibili, un luogo senza orizzonti, senza soffitti, senza pavimenti né aree solide definibili come terreno. Lo chiamo metasfera, perché intuisco immediatamente che questo livello di realtà consensuale comprende tutte le varietà e le stravaganze di sensazioni che ho sperimentato sulla Terra, tutte le analisi binarie e i piaceri intellettuali che ho sentito scorrere dal TecnoNucleo attraverso la sfera dati e, soprattutto, un senso di… di che cosa? Espansività? Libertà? Forse "potenziale" è la parola che cerco.

Sono da solo, nella metasfera. I colori scorrono intorno a me, sotto di me, attraverso me… a volte si dissolvono in vaghe tinte pastello, a volte si agglomerano in fantasie simili a nuvole e in altri momenti, più di rado, sembrano riunirsi in oggetti più solidi, sagome, forme distinte che forse sono e non sono di aspetto umanoide… li guardo come un bimbo guarderebbe le nuvole vedendovi elefanti, coccodrilli del Nilo e grandi cannoniere che navigano da ovest a est in un giorno di primavera nel Lake District.

Dopo un poco odo rumori: il gorgoglio irritante della fontana del Bernini nella piazza, fuori; colombi che svolazzano e tubano sugli aggetti sopra la finestra; Leigh Hunt che si lamenta piano nel sonno. Ma al di sopra e al di sotto di questi rumori, odo qualcosa di più furtivo, di meno reale, ma infinitamente più minaccioso.

Qualcosa di grosso viene da questa parte. Mi sforzo di vedere nella penombra pastello: qualcosa si muove appena al di là del campo visivo. So che quella cosa conosce il mio nome. So che tiene sul palmo la mia vita e nell'altro pugno la mia morte.

Non c'è nascondiglio, in questo spazio al di là dello spazio. Non posso fuggire. Il canto di sirena del dolore continua a salire e scendere, dal mondo che mi sono lasciato alle spalle… il dolore quotidiano di ogni persona in qualsiasi luogo, il dolore di chi soffre a causa della guerra appena scoppiata, il dolore specifico e focalizzato di chi è appeso al terribile albero dello Shrike e, peggio di tutto, il dolore che provo per i pellegrini e quegli altri la cui vita e i cui pensieri adesso condivido e a causa loro.

Varrebbe la pena che mi precipitassi ad accogliere quest'ombra di distruzione che si avvicina, se mi garantisse la libertà da questo canto di dolore.

— Severn! Severn!

Per un secondo penso di essere io a chiamare, proprio come ho già fatto in queste stanze, come ho chiamato Joseph Severn, la notte in cui dolore e febbre infuriavano oltre la mia capacità di sopportazione. E lui era sempre lì: Severn, con la sua lentezza goffa e benintenzionata, con quel sorriso gentile che spesso avrei voluto cancellargli dal viso con qualche meschinità o qualche commento sgarbato. È difficile essere benevoli, quando la morte si avvicina. Ho vissuto una vita di una certa generosità… perché allora il mio destino era di continuare in quel ruolo, quando ero io a soffrire, quando ero io a tossire e sputare pezzi di polmone in fazzoletti macchiati di sangue?

— Severn!

Non è la mia voce. Hunt mi scuote, mi chiama Severn. Capisco che è convinto di chiamare me. Gli scosto le mani e mi lascio sprofondare di nuovo nei cuscini. — Cosa c'è? Cosa succede?

— Si lamentava — dice l'aiutante di Gladstone. — Gridava.

— Un incubo. Tutto qui.

— Di solito i suoi sono più di semplici sogni — dice Hunt. Lancia un'occhiata alla stanzetta, illuminata ora dalla lampada che lui stesso ha portato. — Che posto orribile, Severn.

Cerco di sorridere. — Mi costa ventotto scellini al mese. Sette scudi. Un furto da briganti di strada.

Hunt si acciglia. La luce cruda fa sembrare più profonde del solito le sue rughe. — Stia a sentire, Severn — dice. — So che lei è un cìbrido. Gladstone mi ha detto che era la personalità ricuperata di un poeta di nome Keats. Ora è chiaro che tutto questo… — indica con gesto disperato la stanza, le ombre, i rettangoli delle finestre, l'alto letto — tutto questo ha a che fare con lei. Ma come? Quale gioco il Nucleo gioca, qui?

— Non lo so — rispondo sinceramente.

— Ma conosce questo posto?

— Oh, sì — dico con sentimento.

— Parli — supplica Hunt; e a questo punto è il suo ritegno a non chiedere, quanto l'ansia della supplica, a farmi decidere a dirgli tutto.

Gli parlo del poeta John Keats, della sua nascita nel 1795, della sua vita breve e spesso infelice, della morte per "consunzione" nel 1821, a Roma, lontano dagli amici e dall'unico amore. Gli parlo della mia programmata "guarigione" in questa stessa stanza, della mia decisione di assumere il nome di Joseph Severn — l'amico pittore rimasto con Keats fino alla fine — e del mio breve periodo nella Rete, ad ascoltare, a guardare, condannato a sognare la vita dei Pellegrini allo Shrike su Hyperion e di altri.