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— Kassad — bisbigliò Moneta; e il colonnello smise di vagare. — Kassad — disse di nuovo, con le labbra contro la guancia di lui, mentre la tuta del colonnello si riattivava e si fondeva con la sua.

Fedmahn Kassad si alzò a sedere con lei. Scosse la testa, capì che era di nuovo rivestito di energia argento vivo e si tirò in piedi. Non sentì dolore. Il corpo gli formicolò in decine di punti, dove le ferite si erano rimarginate, i gravi tagli si erano richiusi. Kassad fuse mano e tuta, passò pelle su pelle, piegò il ginocchio e palpò il tallone, ma non trovò alcuna cicatrice al tatto.

Kassad si rivolse al gigante. — Grazie — disse, senza neppure sapere se l'uomo poteva udirlo.

Il gigante rispose con un cenno e si allontanò verso gli altri.

— È un… una sorta di medico — disse Moneta. — Un guaritore.

Kassad la udì appena, mentre concentrava l'attenzione sugli altri. Erano umani, lo sentiva nel cuore, che erano umani, ma presentavano diversità sconvolgenti: le loro dermotute non erano argentee come quelle di Kassad e di Moneta, ma spaziavano nell'arco di una ventina di colori, ciascuno delicato e organico come pelliccia di una creatura selvaggia vivente. L'anatomia variava come la colorazione: la mole e la robustezza da Shrike del guaritore, con la fronte massiccia e una cascata di flusso energetico fulvo che forse era una chioma… accanto a lui una femmina, non più grande di una bambina ma chiaramente donna matura, perfettamente proporzionata, con gambe muscolose, seni piccoli e ali da fata lunghe due metri che spuntavano dalla schiena… e ali non solo decorative, perché quando la brezza arruffò l'erba arancione della prateria, la donna prese una breve rincorsa, tese le braccia e con movimenti aggraziati si alzò in volo.

Dietro alcune donne di alta statura, con dermotuta azzurra e lunghe dita palmate, c'era un gruppo di uomini tozzi, muniti di visore e di armatura come marines della FORCE pronti a scendere in battaglia nello spazio; ma Kassad intuì che l'armatura faceva parte di loro. In alto, un gruppo di maschi alati si alzò sulle correnti di aria calda e fra di loro pulsarono minuscoli raggi di luce laser gialla, in una sorta di codice complicato. I laser sembravano provenire da un occhio al centro del petto.

Kassad scosse di nuovo la testa.

— Dobbiamo andare — disse Moneta. — Lo Shrike non può seguirci qui. I guerrieri hanno già molto a cui pensare, senza doversela vedere anche con questa particolare manifestazione del Signore della Sofferenza.

— Dove siamo? — domandò Kassad.

Con una ferula di oro presa dalla cintura Moneta materializzò un ovale violetto. — Lontano, nel futuro della razza umana. Uno dei nostri futuri. Qui le Tombe sono state create e lanciate a ritroso nel tempo.

Kassad si guardò intorno di nuovo. Qualcosa di molto grosso si mosse contro la distesa di stelle, oscurò migliaia di soli e gettò un'ombra per pochissimi secondi, prima di scomparire. Uomini e donne lanciarono in alto una breve occhiata e tornarono alle proprie faccende: mietere dagli alberi piccole creature, riunirsi in gruppi per esaminare vivide mappe di energia evocate dallo schiocco delle dita di uno degli uomini, volare verso l'orizzonte con la velocità di una freccia. Un individuo basso e largo, di sesso imprecisato, si era scavato la tana nel terreno e in quel momento era visibile solo come un'increspatura di terriccio che si muoveva in rapidi cerchi concentrici intorno al gruppo.

— Dove si trova, questo luogo? — domandò di nuovo Kassad. — Che cos'è?

A un tratto, inspiegabilmente, si sentì vicino alle lacrime, come se avesse girato un angolo sconosciuto e si fosse trovato a casa nel Progetto di Rilocazione di Tharsis, mentre la madre morta da tempo lo salutava a gesti dalla porta di casa e amici e parenti da tempo dimenticati lo aspettavano per una partita di scootball.

— Vieni — disse Moneta, e fu impossibile non notare il tono pressante. Lo tirò verso l'ovale luminoso. Kassad guardò gli altri e la volta stellata, finché non varcò il portale e la scena scomparve.

Emersero nel buio; occorse un brevissimo istante perché i filtri della dermotuta di Kassad compensassero la vista. Erano alla base del Monolito di Cristallo, nella Valle delle Tombe del Tempo. Era notte. In alto le nuvole ribollivano, infuriava una tempesta. Solo il bagliore pulsante delle Tombe illuminava la scena. Kassad provò una dolorosa sensazione di perdita per il luogo pulito e ben illuminato che avevano appena lasciato; poi si concentrò sulla scena.

Mezzo chilometro più avanti nella valle, c'erano Sol Weintraub e Brawne Lamia; Sol era chino sulla donna, distesa davanti alla Tomba di Giada. La polvere turbinava tutt'intorno, così fitta che i due non videro lo Shrike muoversi come un'altra ombra lungo il sentiero, davanti all'Obelisco, nella loro direzione.

Fedmahn Kassad uscì dalla facciata di marmo scuro del Monolito e scansò i frammenti di cristallo disseminati sul sentiero. Moneta lo teneva ancora per il braccio.

— Se combatti di nuovo — gli disse all'orecchio, con voce bassa e pressante — lo Shrike ti ucciderà.

— Sono miei amici — ribatté Kassad. L'equipaggiamento della FORCE e la tuta blindata ridotta a brandelli giacevano dove Moneta li aveva gettati, alcune ore prima. Kassad frugò nel Monolito finché non trovò il fucile di assalto e una bandoliera di granate; vide che il fucile era ancora in condizioni perfette, controllò le cariche e tolse le sicure, lasciò il Monolito e avanzò di buon passo a intercettare lo Shrike.

Mi sveglio al rumore di acqua corrente e per un secondo penso di essermi appisolato accanto alla cascata di Lodore durante la passeggiata con Brown. Ma quando apro gli occhi, il buio mi fa paura come mentre dormivo, l'acqua ha un suono malato, non la foga della cascata che Southey un giorno renderà famosa nella sua poesia, e mi sento malissimo, non solo per il mal di gola con cui sono tornato dalla gita, dopo che io e Brown abbiamo stupidamente scalato lo Skiddaw prima di colazione, ma mortalmente, paurosamente malato, con il corpo che mi duole per qualcosa di più profondo della febbre ricorrente, mentre catarro e fuoco mi gorgogliano nel petto e nel ventre.

Mi alzo e a tastoni vado alla finestra. Una luce fioca proviene da sotto la porta della stanza di Leigh Hunt: è andato a dormire senza spegnere la lampada. Non sarebbe stato male se l'avessi fatto anch'io, mi dico; ma ormai è tardi per accenderla e mi dirigo al rettangolo più chiaro delle tenebre esterne contro il buio più intenso della stanza.

L'aria è fresca e piena del profumo di pioggia. Sono stato svegliato dal tuono, capisco quando il lampo illumina i tetti di Roma. Non una luce brilla nella città. Sporgendomi un poco dalla finestra, vedo la scalinata sopra la piazza, lucida di pioggia, e le torri di Trinità dei Monti che si stagliano, nere, contro il bagliore dei lampi. Il vento che soffia giù per i ripidi scalini è freddo; ritorno al letto e mi avvolgo in una coperta, prima di trascinare alla finestra la poltrona e sedermi a guardare fuori e a pensare.

Ricordo mio fratello Tom, durante le ultime settimane e gli ultimi giorni, con il viso e il corpo contorti nel terribile sforzo di respirare. Ricordo mia madre e il pallore del suo viso, quasi risplendente nella penombra della stanza oscurata. Mia sorella e io avevamo il permesso di toccarle la mano appiccicaticcia e di baciarle le labbra calde per la febbre, prima di andare a letto. Ricordo che una volta, uscendo dalla stanza, mi pulii di nascosto le labbra, guardando di sottecchi mia sorella e gli altri per scoprire se avevano visto quell'atto peccaminoso.

Quando il dottor Clark e un chirurgo italiano aprirono il corpo di Keats meno di trenta ore dopo la morte, trovarono, come in seguito Severn scrisse a un amico, "… la consunzione peggiore possibile… i polmoni interamente distrutti… le cellule completamente scomparse". Né il dottor Clark, né il chirurgo italiano riuscivano a immaginare come Keats fosse vissuto negli ultimi due mesi.