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Le illusioni erano state spazzate via dalla mente di Ender. Adesso sapeva che era stato uno sciocco a fidarsi di Graff. Quella gente lo avrebbe lasciato crepare. Interessati a lui, certo, perfino premurosi dietro la loro durezza, ma lo avrebbero lasciato crepare, lì nelle docce. Nessuno lo avrebbe mai aiutato. Peter poteva essere una carogna, ma da quel lato aveva visto giusto, spietatamente giusto: il potere di causare sofferenza era il solo che gli altri rispettavano. Il potere di uccidere e di distruggere, perché chi non sapeva uccidere era sempre alla mercé di chi poteva farlo, e nulla e nessuno lo avrebbe salvato.

Dink lo accompagnò in camera sua e lo fece stendere sul letto. — Pensi di avere qualche frattura? — gli chiese.

Ender scosse il capo.

— L’hai conciato male. Quando l’ho visto lì, non avrei scommesso uno sputo su di te. Invece l’hai ridotto molto male. Se non fosse caduto, credo che avresti continuato fino ad ammazzarlo.

— Lui voleva ammazzare me.

— Lo so. Lo conosco bene. Nessuno sa odiare come Bonzo. Ma è congelato, ormai. Se non lo rispediscono dritto a casa, non riuscirà più neppure a guardarti negli occhi. Ne te né chiunque altro. È venti centimetri più alto di te, e l’hai ridotto uno straccio.

Ma nella mente di Ender era rimasto impresso soltanto il tremito che aveva scosso Bonzo quando la sua testa aveva sbattuto nel tubo. Lo sguardo vitreo e morto dei suoi occhi. Era già finito fin da allora, già incosciente. Stava in piedi a occhi aperti, ma senza pensare e senza reagire. Con quell’espressione vuota, terribile, quasi oscena. La stessa faccia che aveva Stilson quando lo lasciai là per terra.

— Lo congeleranno, comunque — continuò Dink. — Tutti sanno che ha cominciato lui. Io li ho visti alzarsi insieme e uscire dalla mensa. Ci ho messo qualche secondo ad accorgermi che tu non c’eri, e poi un paio di minuti per scoprire dov’eri andato. Te l’avevo detto di non restare solo.

— Già. Mi spiace.

— Saranno costretti a congelarlo. È un cercaguai. Lui e il suo puzzolente senso dell’onore.

E in quel momento, con sorpresa di Dink, Ender cominciò a piangere. Disteso sulla schiena, ancora bagnato d’acqua e di sudore, tirò su col naso e lasciò che le lacrime gli si disperdessero sulle guance velate da tracce di schiuma secca. Un singhiozzo uscì dalla sua gola come un rantolo.

— Sei sicuro di non avere niente?

— Non volevo fargli del male! — ansimò Ender. — Perché non è stato capace di lasciarmi in pace?

Sentì la porta aprirsi con un fruscio, poi richiudersi. Pur semiaddormentato seppe che era la notifica per la battaglia di quel giorno. Socchiuse gli occhi, aspettandosi di trovare il buio del primo mattino, invece le luci erano già accese. Era nudo, e quando si mosse scoprì che le lenzuola erano umide. Nei suoi occhi, gonfi, era rimasto il dolore del pianto. Accese il banco per avere l’ora. 18,20 fu la cifra che comparve. È sempre lo stesso giorno. Ho già fatto una battaglia oggi. Ne ho fatte due… quei bastardi sanno cos’ho passato, e continuano a farmi questo.

ORDA DEI DRAGHI — comandante Ender Wiggin
Sala di Battaglia, ore 1900
ORDA DEI GRIFONI — comandante William Bee
ORDA DELLE TIGRI — comandante Talo Momoe

Tornò a sedersi sul letto. Il foglio tremava fra le sue dita. Questo non lo posso fare, disse in silenzio. E poi ad alta voce: — Questo non lo posso fare.

Si rialzò, stordito, e guardò attorno in cerca della tuta da battaglia. Poi ricordò: l’aveva messa in un pulitore automatico prima di far la doccia. Era ancora là.

Col foglio in mano uscì dal suo alloggio. L’ora di cena era quasi trascorsa e nei corridoi c’erano pochi ragazzi, ma nessuno gli rivolse la parola; in compenso raccolse parecchi sguardi intimoriti, forse a causa di quel che era successo a mezzogiorno nelle docce, forse per l’espressione fosca che gli aveva contratto il viso. Molti dei suoi ragazzi erano in camerata.

— Ehilà, Ender! Facciamo un po’ di allenamento stasera?

Lui consegnò il foglio a Zuppa Cinese, che mandò un grugnito. — Questi figli di puttana — disse. — Due alla volta?

— Due orde! — sbottò Tom il Matto.

— Si pesteranno i calli l’una con l’altra — disse Bean.

— Io vado a lavarmi — disse Ender. — Preparate i branchi e uscite. Vi raggiungerò alla porta.

Uscì dalla camerata lasciando dietro di sé un tumulto di chiacchiere, ma fece in tempo a sentire Tom il Matto che gridava: — Due fottute orde! E con questo? Gli frusteremo il culo!

Nelle docce non c’era nessuno. Il pavimento era stato lavato. Neppure una delle gocce di sangue che Bonzo aveva lasciato sulla parete e in terra. Ogni traccia cancellata. Lì non era mai accaduto nulla di spiacevole e di sporco.

Ender avanzò sotto il getto d’acqua tiepida e si sciacquò, lasciando che il sudore di quel combattimento se ne andasse giù per lo scarico. Tutto eliminato, salvo che lo ricicleranno, e domattina ognuno berrà la sua dose del sangue di Bonzo. Sangue ormai senza vita, ma pur sempre sangue, e con esso il mio sudore. Il tutto versato in nome della stupidità o della crudeltà o di qualunque cosa li abbia convinti a lasciarlo succedere.

Si asciugò, indossò la tuta e s’avviò verso la sala di battaglia. La sua orda stava aspettando in corridoio, presso la porta ancora chiusa, e quaranta sguardi lo seguirono in silenzio mentre andava a fermarsi di fronte al campo di forza bianco grigiastro. Tutti sapevano già che genere di battaglia li attendeva al di là di esso; questo, e la loro stanchezza residua dello scontro di quel mattino, li tratteneva dal darsi la carica con le solite grida. Dover affrontare insieme i Grifoni e le Tigri avrebbe messo a terra il morale di chiunque.

Qualunque cosa, purché serva a sconfiggermi, pensò Ender. Qualunque stratagemma riescano a pensare, sovvertendo anche le regole, senza fermarsi davanti a nulla pur di battermi. Be’, sono stanco di questi giochi. Nessun gioco vale il sangue di un ragazzo sparso sul pavimento delle docce. Congelatemi, rispeditemi a casa, io non ci sto più.

La porta si dissolse. Soltanto tre metri più avanti c’erano quattro stelle unite insieme, che bloccavano completamente la vista della sala. Due orde non bastavano. Devono anche tappare gli occhi alla mia orda.

— Bean — disse, — prendi i tuoi ragazzi e guarda cosa c’è dietro questa stella.

Bean svolse la treccia molecolare, se ne fissò un capo intorno alla cintura, diede l’altro a uno dei soldati della sua squadra e balzò lievemente oltre la porta. I cinque compagni lo seguirono subito. Era una manovra che avevano già sperimentato parecchie volte, e in pochi secondi riuscirono ad agganciarsi sulla parete interna della stella. Bean si spinse fuori a gran velocità, su una linea parallela alla porta; quando poi fu quasi all’angolo della sala scalciò contro la parete proiettandosi verso gli avversari. Lampi di luce sull’altro lato del locale lo informarono che questi gli stavano sparando addosso. Ma poiché era legato alla corda la sua traiettoria divenne un arco di cerchio facendo di lui un bersaglio impossibile, un arco che oltretutto si stringeva mentre la sua squadra tirava la treccia per recuperarlo sul lato opposto della stella. Appena i suoi lo ebbero portato al riparo mosse le braccia e le gambe, mostrando a quelli rimasti in corridoio che il nemico non lo aveva colpito da nessuna parte.

Ender lo raggiunse oltrepassando la soglia con un saltello.

— È piuttosto scuro — disse Bean, — ma c’è abbastanza luce da non poter seguire facilmente le loro mosse grazie alla fluorescenza delle tute. Il tipo di illuminazione peggiore. È tutto spazio aperto, da questa stella fino alla parete opposta. Ma là ci sono otto stelle riunite in un quadrato attorno alla loro porta. Non ho visto nessuno, salvo quelli che sporgevano la testa per sbirciare fuori. Ci aspettano standosene tutti quanti appostati là dietro.