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— Proprio così! È vero! — esclamarono i ragazzi. Molti di loro risero. Talo Momoe cominciò a battere le mani e a gridare: — En-der! En-der! En-der! — Le sue Tigri e i Grifoni lo imitarono quasi tutti, applaudendo e continuando a ridere divertiti.

Dopo aver stretto la mano a Bee e a Momoe, Ender uscì dalla porta nemica. I suoi soldati gli si accodarono, e il coro di quelli che continuavano a gridare il suo nome li seguì lungo i corridoi.

— Ci alleniamo, stasera? — domandò Tom il Matto.

Ender scosse la testa.

— Domani mattina, allora?

— No.

— Be’, quando?

— Mai più, per quello che riguarda me.

Alle sue spalle si levarono dei mormorii.

— Ehi, questo non è leale — disse uno dei ragazzi. — Non è colpa nostra se gli insegnanti stanno stravolgendo le gare. E non puoi smettere di insegnarci e di guidarci soltanto perché…

Ender sbatté una mano aperta contro il muro e si volse di scatto. — Non mi importa più un accidente di queste gare! — Il suo grido echeggiò lungo il corridoio delle camerate. Ragazzi di altre orde misero la testa fuori dalle loro porte. Nel silenzio la voce di lui suonò bassa e secca: — Non me ne importa. Chiaro? È finito — sussurrò. — Il gioco è finito.

Senza guardare nessuno tornò in camera sua. Avrebbe voluto sdraiarsi, ma quando toccò il letto lo sentì ancora umido. Questo gli ricordò quel che gli era successo, e furioso strappò via le lenzuola e il materasso scaraventando tutto quanto nel corridoio. Poi arrotolò una tuta per farne un cuscino e si sdraiò sulla rete elastica del letto. Era scomoda, ma gli parve perfettamente intonata alle sue riflessioni.

Le stava rimuginando da non più di dieci minuti quando qualcuno bussò alla porta.

— Andatevene — borbottò. Ma chiunque fosse non lo udì, o non gli importava. Alla fine Ender gli disse di entrare.

Era Bean.

— Vattene, Bean.

Il ragazzo annuì, ma non si mosse. Con aria imbarazzata si guardò le scarpe. Il primo impulso di Ender fu di mettersi a urlare, di maledirlo e di ordinargli di lasciarlo in pace. Poi notò l’aspetto teso e depresso di Bean, le sue spalle curve per la stanchezza, gli occhi cerchiati dalla mancanza di sonno; e tuttavia la sua pelle era liscia e quasi trasparente, la pelle di un bambino. Le guance tenere di un bambino, i fianchi snelli di un bambino. Non aveva neppure otto anni. Per quanto fosse brillante, volonteroso e deciso era un bambino. Era giovane.

No, non lo è del tutto, si corresse Ender. Piccolo, certo. Ma sa già cosa significa battersi con una truppa che dipende da lui e dalla sua squadra, e ci ha dato la vittoria con la sua risolutezza. Non c’è niente di infantile in questo.

Interpretando il silenzio e l’espressione di Ender come un consenso, Bean chiuse la porta e si avvicinò al suo letto. Solo in quel momento lui vide che aveva in mano un foglio.

— Sei stato trasferito? — gli chiese. Era incredulo, ma la voce che si sentì uscire di bocca era smorta e piatta.

— All’orda delle Lepri.

Ender annuì. Naturalmente. Era ovvio. Se io ho un’orda che non può essere sconfitta, quelli devono togliermela. - Carn Carby è in gamba — sospirò. — Spero che sappia riconoscere i tuoi meriti.

— Carn Carby è stato promosso oggi. Glie l’hanno fatto sapere poco fa, mentre eravamo in sala di battaglia.

— Bene. Adesso chi è al comando dell’orda?

Bean allargò le braccia con aria rassegnata. — Io.

Ender fissò lo sguardo sul soffitto e annuì. — È naturale. Dopotutto sei soltanto quattro anni più giovane dell’età prevista.

— Non mi sembra divertente. Non so cosa stia succedendo qui. Tutti quei cambiamenti nelle gare. E adesso questo. Io non sono il solo a essere trasferito, sai. Hanno promosso metà dei comandanti, e messo un bel po’ di noialtri al comando delle loro orde.

— Chi di noi?

— Sembra che… tutti i capibranco e i loro vice.

— È chiaro. Se hanno deciso di indebolire la mia orda, quelli la radono al suolo. Qualunque cosa facciano, non la fanno mai a metà.

— Tu vincerai ancora, Ender. Tutti ne siamo convinti. Tom il Matto ha detto: «Ma mi ci vedi a comandare un’orda che debba battere i Draghi?» Tutti sanno che sei il migliore. Non riusciranno a spezzarti ora, qualunque cosa…

— L’anno già fatto.

— No, Ender. Oggi hai dimostrato che…

— Non m’importa più niente di questi giochi, Bean. Io non gioco più. Niente più addestramenti, niente più battaglie. Possono consegnarmi qui dentro tutte le notifiche che vogliono, ma io lascio perdere. L’ho deciso oggi prima di entrare in sala di battaglia. E se ho fatto di tutto per vincere è perché volevo andarmene con stile, solo per questo.

— Avresti dovuto vedere la faccia di William Bee. Non ce la faceva a raccapezzarsi all’idea che tu avessi vinto con sei ragazzi mezzo congelati, mentre in sala c’erano ottantadue di loro ancora tutti sani.

— Perché dovrei stare a pensare alla faccia di William Bee? Perché dovrei voler battere questo e quello? — Ender si appoggiò le palme delle mani sugli occhi. — Oggi ho fatto del male a Bonzo. Del male sul serio, Bean.

— Se l’è cercata.

— Non cadeva, e io continuavo a colpirlo. Stava in piedi come un pezzo di carne morta, e io gli sbattevo la testa nel muro…

Bean non disse niente.

— Volevo essere sicuro che non potesse mai più minacciarmi così.

— Non lo farà — disse Bean. — Lo spediscono a casa.

— Di già?

— Gli insegnanti non hanno detto molto, come al solito. La notizia ufficiale è che l’hanno promosso, ma nello spazio dove scrivono l’assegnazione… sai, Corso Piloti, o Scuola Armamenti, Corso Sottufficiali, o Specializzazioni Tecniche, questo genere di cose… be’, c’è scritto Cartagena, Spagna. È casa sua.

— Sono contento che l’abbiamo promosso.

— Diavolo, Ender, noi siamo contenti che sia fuori. Se avessimo saputo cosa voleva farti l’avremmo ammazzato a sangue freddo. È vero che ti ha aggredito con tutta una banda di altre carogne? Si dice che…

— No. Soltanto lui e io. E si è battuto onorevolmente. — Se non fosse stato per il suo senso dell’onore, comunque, gli altri mi sarebbero venuti addosso tutti insieme. E avrebbero potuto ammazzarmi. Questo mi ha salvato la vita. - Io invece non sono stato a pensare al mio onore — aggiunse sottovoce. — Mi sono battuto per vincere.

Bean rise. — E l’hai fatto. Gli hai mollato un calcio che lo farà filare a razzo fin sulla Terra.

Bussarono alla porta. Ma prima che Ender potesse rispondere questa si aprì. S’era aspettato qualcun altro dei suoi soldati, invece era il maggiore Anderson. E dietro di lui venne dentro il colonnello Graff.

— Ender Wiggin — disse Graff.

Lui si alzò. — Sì, signore.

— L’insolenza di cui hai dato prova oggi in sala di battaglia è stata eccessiva, e non deve ripetersi.

— Sissignore — disse Ender.

Bean era però ancora d’umore insubordinato, e quel rimprovero gli parve ingiusto. — Signore, secondo me era tempo che qualcuno dicesse a un insegnante come la pensiamo su quello che avete fatto.

I due adulti lo ignorarono. Anderson porse a Ender un foglio di carta. Formato protocollo, non come quelli stampati dal computer che servivano per le comunicazioni interne. Era fitto di ordini e di istruzioni. Bean sapeva cosa significava: Ender era stato trasferito fuori dalla Scuola.

— Promosso? — gli chiese. Ender annuì. — Perché ci hanno messo tanto? Sei solo di due o tre anni in anticipo sull’età minima. Comunque hai imparato a camminare, a parlare e a vestirti da solo. Cos’altro gli rimarrebbe da insegnarti?

Ender scosse il capo. — Tutto ciò che so è che il gioco è finito. — Ripiegò il foglio. — Mai troppo presto per me. Posso dirlo all’orda?

— Non c’è tempo di girare per la Scuola in cerca dei tuoi conoscenti — disse Graff. — La tua navetta parte fra venti minuti. Questo rende tutto più facile.