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Come posso sapere tutto questo si chiese Ender. Come posso vedere cose che non sono mai state nella mia memoria?

Quasi in risposta a quella domanda nuove immagini lo sommersero, e riconobbe quelle della prima battaglia contro una flotta degli Scorpioni. Le stesse che aveva osservato sul simulatore, ma capovolte, perché ora le vedeva come le aveva viste la regina di quell’alveare, attraverso moltissimi occhi diversi. Vide gli Scorpioni assumere la loro formazione globulare, sentì la loro sorpresa quando i terribili incrociatori terrestri sbucarono come lampi imprevedibili dalle tenebre; quindi vi furono i bagliori azzurri del distruttore molecolare che faceva esplodere in polvere le navi dell’alveare.

Ender provò le sensazioni che la regina aveva provato e trasmesso ad altre, mentre attraverso gli occhi delle sue operaie/combattenti vedeva piombare sulla flotta una morte troppo rapida perché fosse possibile evitarla. Non erano state sensazioni di paura o di dolore, tuttavia. Ciò che quella regina aveva sentito era stata una grande tristezza, una cupa rassegnazione all’ineluttabile. Non aveva pensato quelle parole, mentre vedeva l’attacco dei terrestri decisi ad uccidere, ma fu in parole che Ender poté tradurre la sua riflessione: Loro non ci hanno perdonato, aveva pensato quella regina. Di certo noi moriremo, adesso.

— E come puoi riavere la vita? — chiese Ender.

La regina racchiusa nel suo bozzolo di seta non aveva parole da offrirgli, ma quando lui fissò accigliato quell’oggetto, di nuovo da esso parvero scaturire delle immagini mentali: l’atto di deporre il bozzolo in un luogo fresco, un luogo oscuro, dove scorresse acqua per dargli umidità… no, non semplice acqua, bensì acqua mista alla linfa di un certo albero, e tenerlo tiepido cosicché alcune reazioni potessero avvenire nel suo interno. Poi attendere. Giorni e settimane, per dare alla pupa il tempo di completare la metamorfosi. E poi, allorché il bozzolo avrebbe assunto un polveroso colore marroncino… Ender vide se stesso nell’atto di aprirlo, e di aiutare la piccola e fragile regina ad emergerne. Vide se stesso sorreggerla per gli arti anteriori e aiutarla a camminare dal bozzolo squarciato a un nido fatto di sabbia e foglie secche. Allora sarò viva, fu il pensiero/sensazione che lui captò. Allora sarò sveglia. Allora partorirò i miei diecimila figli.

— No! — disse Ender. — Non posso farlo.

Angoscia.

— I tuoi figli, oggi, sono i mostri dei nostri incubi. Se io ti portassi alla luce, sarebbe soltanto per destinarti al massacro.

Dentro di lui lampeggiarono dozzine di immagini di esseri umani che venivano uccisi dagli Scorpioni, ma insieme ad esse scaturì un flusso di dolore così intenso che Ender non poté sopportarlo. Sentì le lacrime scorrergli sul volto, calde e veloci.

— Sì… se puoi far provare agli altri quel che fai provare a me, forse sapranno perdonare e dimenticare. Forse.

Soltanto io, rifletté. Mi hanno trovato attraverso l’ansible, seguendolo e scivolando nella mia mente. Penetrando in quei miei sogni tormentosi sono arrivati a conoscermi, proprio quando trascorrevo le giornate combattendoli e distruggendoli hanno scoperto le mie paure, e soprattutto hanno scoperto che non ero consapevole di sterminarli veramente. In quelle poche settimane che restavano loro da vivere hanno costruito questo posto per me, e il corpo del Gigante, e il precipizio alla Fine del Mondo, in modo che i miei occhi mi conducessero fin qui. Io sono il solo che essi conoscano, e così riescono a parlare soltanto a me e attraverso di me.

Noi siamo come te.

Noi siamo come te, fu il pensiero che prese forma nella sua mente. Non volevamo uccidere. E quando abbiamo capito, non siamo più tornati al vostro mondo. Noi credevamo d’essere le uniche creature intelligenti dell’universo, finché non abbiamo incontrato voi. Ma non avremmo mai supposto che il pensiero cosciente potesse nascere in animali solitari che non condividevano i loro sogni. Come avremmo potuto saperlo? Noi avremmo potuto vivere in pace con voi. Credimi. Credimi. Credimi.

Allungò le mani nella cavità e sollevò il bozzolo. Era sorprendentemente fragile, per un oggetto che conteneva tutto il futuro e tutte le speranze di una razza di esseri senzienti.

— Ti porterò con me — disse Ender, — di pianeta in pianeta, finché troverò un luogo dove tu possa svegliarti in sicurezza. E racconterò la vostra storia alla mia gente, cosicché per quel giorno possano avervi perdonato. Così come voi avete perdonato me.

Avvolse il bozzolo della regina nella blusa e tornò alla finestra, poi si calò fino alla base della torre.

— Che c’era là dentro? — chiese Abra.

— La risposta — disse Ender.

— A cosa?

— Alla domanda che mi hai fatto. — E questo fu tutto ciò che gli uscì di bocca sull’argomento. Continuarono l’esplorazione per altri cinque giorni, e infine scelsero una località molto a meridione del castello.

Qualche settimana dopo domandò a Valentine di leggere un saggio che aveva scritto. Lei batté il codice di quella registrazione, se la fece mandare su uno schermo dal computer dell’astronave, e lesse.

Era stato scritto come se la narratrice fosse l’ultima regina degli Scorpioni, che esponeva ciò che la sua razza aveva desiderato fare e ciò che aveva fatto. Parlava dei loro successi e dei loro fallimenti, e fra questi ultimi annoverava l’incontro con gli esseri umani. «Non volevamo farvi del male. Non consapevolmente» diceva, «e vi perdoniamo per averci uccisi».

Dagli albori della loro civiltà alla guerra che aveva spazzato via il loro pianeta natale, Ender ne riassumeva la storia come fosse un racconto tramandato oralmente dall’antichità. Quando arrivò a parlare della Grande Madre, l’unica regina riconosciuta nella sua epoca, colei che per prima aveva stabilito di allevare e istruire le giovani regine invece di ucciderle per non avere rivali, rallentò il ritmo della narrazione e disse di quante volte ella era stata costretta a distruggere quei frutti del suo corpo, le piccole regine che d’istinto le si rivoltavano contro, finché non ne partorì una che capiva il significato profondo dell’armonia e della collaborazione.

Questa era stata una novità rivoluzionaria per il loro mondo: due regine che si amavano e si aiutavano l’un l’altra invece di battersi furiosamente. Sotto di loro gli alveari si moltiplicarono, divennero forti e civili; prosperarono ed ebbero figlie capaci di vivere in pace. Quello era stato l’inizio di un regno destinato ad evolversi su molti pianeti.

«Ah, se soltanto avessimo saputo comunicare con voi!» sospirava l’immaginaria regina della storia di Ender. «Ma poiché ciò non accadde, vi chiediamo solo questo: che ci ricordiate, noi regine e operaie che vi combattemmo, non come nemiche ma come sventurate e tragiche sorelle, a cui Dio o il Fato o l’Evoluzione aveva dato una forma ahimè diversa dalla vostra. Se fossimo riusciti a stringerci la mano, ci saremmo apparsi l’un l’altro come creature uguali. E invece ci siamo uccisi a vicenda. Ma nonostante ciò i nostri spiriti vi danno il benvenuto, oggi, come ospiti onorati. Venite sui nostri mondi, amici della Terra; abitate i nostri tunnel, ridate la vita ai nostri campi, e ciò che non è più fatto dalle nostre mani siano le vostre a farlo in pace. Germogliate per loro, alberi e fiori. Sole, scalda questi nostri fratelli. E tu, buona terra, sii fertile per loro. Purché la vita continui, questa è l’eredità che gli lasciamo, e sia per sempre la loro casa.»

Il libro che Ender aveva scritto non era lungo, comunque conteneva tutti i fatti buoni o malvagi che erano a conoscenza della regina non ancora nata. E non lo firmò col suo nome, bensì con un titolo che aveva voluto darsi:

L’ARALDO DEI DEFUNTI

Sulla Terra il libro fu pubblicato senza molto scalpore, ma ne furono distribuite tante copie che già pochi mesi dopo era difficile credere che qualcuno non ne conoscesse il contenuto. Molti lo trovarono interessante; una ristretta minoranza prese alcuni dei suoi aspetti fin troppo sul serio. Questi diedero inizio a un culto basato sulla fratellanza universale e sul principio che, quando uno di essi moriva, aveva il diritto di avere accanto a sé un altro confratello, l’Araldo dei Defunti, il quale narrava la vita e le opere dello scomparso con le parole che lui stesso avrebbe usato, ma con spietata verità e senza celare i difetti né sottolineare le virtù. Quelli che si dedicarono a simili servizi funebri destarono spesso sconcerto e disagio fra i parenti del defunto, ma vi fu anche chi ritenne che la sua vita dovesse servire d’insegnamento a qualcun altro, anche per gli errori in essa contenuti, e s’impegnò a lasciarla scritta affinché alla sua conclusione vi fosse un Araldo che dicesse la verità come per la sua stessa bocca.