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— Ti senti meglio, Andrew?

— Sì, signora.

— Perderai l’autobus.

Ender annuì e si alzò. Gli altri ragazzini erano usciti. Lo avrebbero aspettato però, quelli più perfidi. Nella sua nuca non c’era più un monitor a udire quel che udiva lui, e a vedere ciò che vedeva. Potevano dirgli tutto quello che s’erano tenuto in bocca fin’allora. Avrebbero potuto anche picchiarlo: non ci sarebbero stati altri occhi a osservarli, e dunque nessuno sarebbe comparso a difendere Ender. Il monitor aveva comportato anche dei vantaggi, e adesso li aveva perduti.

Ad attenderlo fu Stilson, naturalmente. Non era più robusto di altri ragazzini, ma superava Ender di tutta la testa. E con lui c’erano i suoi amici, cinque o sei. Come sempre.

— Ehi tu, Terzo.

Non rispondere. Non hai niente da dirgli.

— Ehi, Terzo! Stiamo parlando con te, Terzo. Ehi, amico degli Scorpioni, è con te che parliamo.

Non riesco neanche a pensare a qualcosa da dire. E dire qualsiasi cosa sarebbe peggio. Così starò zitto.

— Ehi, Terzo, Terzetto, stronzetto… fai finta d’essere sordo, eh? Pensavi di essere meglio di noi, eh? Ma adesso l’hai perduto l’occhio spione, Terzino stronzone, e sulla testa ti ci han messo un tampone!

— Volete lasciarmi passare, o no? — chiese Ender.

— Vogliamo lasciarlo passare, o no? Dobbiamo lasciarlo passare? — tutti risero. — Sicuro che ti lasciamo passare. Prima lasciamo passare i tuoi denti, però. E poi la testa. E poi lasciamo passare anche il tuo culo, a calci.

I ragazzini cominciarono a girare in cerchio, stringendosi attorno a lui. — L’occhio-spia te l’hanno rotto, Terzotto! L’occhio-spia ha fatto fagotto, Terzotto!

Stilson gli appoggiò una mano in mezzo al petto e lo spinse; qualcuno, dietro di lui, lo proiettò di nuovo verso Stilson.

— Vuoi giocare all’altalena, Terzo? — gridò un altro.

— Vuoi giocare alla palla da tennis, Terzo?

Uno spintone lo gettò indietro. — Sei una palla da ping pong, Terzo?

Ender capì che la cosa sarebbe finita male. Ma finisse come finisse, decise, lui non sarebbe stato il solo a piangere. E appena Stilson fece per spingerlo ancora, lui lo afferrò per il petto. L’altro si liberò con uno strattone.

— Ah, vuoi sfidarmi, eh? Vuoi batterti con me, Terzocchio?

I ragazzini alle spalle di Ender lo afferrarono per le braccia e lo tennero fermo.

Ender non aveva nessuna voglia di ridere, ma rivolse loro un sogghigno misurato. — Ci vogliono cinque di voi per picchiare un Terzo solo?

— Noi siamo normali, non Terzi, faccia di merda. Tu non hai la forza di una scoreggia!

Ma gli tolsero le mani di dosso. E nello stesso istante in cui lo lasciavano Ender colpì Stilson allo sterno con un pugno in cui mise tutta la sua forza. L’avversario cadde lungo disteso. Questo lo colse di sorpresa: non s’era aspettato di mettere a terra Stilson con un sol pugno. Non si rese conto che l’altro doveva aver preso la sfida alla leggera, e non era stato preparato a un colpo così disperato.

Nel vedere l’immobilità di Stilson gli altri sbarrarono gli occhi e si azzittirono, come chiedendosi se fosse vivo o morto. Ender stava invece pensando a come rintuzzare la prevedibile vendetta del ragazzo. L’indomani Stilson avrebbe fatto polpette di lui. Devo vincere adesso, e una volta per tutte, altrimenti mi dovrò battere con lui di continuo e ogni giorno sarà peggio.

Benché avesse appena sei anni Ender conosceva le regole non scritte della lotta. Era proibito infierire sull’avversario che giaceva a terra inerme; soltanto un animale l’avrebbe fatto.

Così si accostò a Stilson e lo colpì con un violento calcio nelle costole. Lui emise un grugnito e cercò di rotolare via. Ender gli girò attorno e gli sferrò una pedata al basso ventre. Dalla bocca di Stilson non uscì un lamento, ma si piegò in due e i suoi occhi si empirono di lacrime.

Ender rivolse agli altri uno sguardo freddo. — Forse vi sta venendo l’idea di buttarvi su di me. Probabilmente mi potete picchiare a sangue. E allora guardate quello che faccio alle carogne. Se ci provate, saprete che d’ora in poi aspetterò di trovarvi da soli, e saprete che vi succederà questo. — Con un altro calcio colpì Stilson in piena faccia. Il sangue gli uscì dal naso e ruscellò sul pavimento. — Solo che con voi non sarà così — disse. — Sarà molto peggio.

Volse loro le spalle e si allontanò. Nessuno provò a seguirlo. Uscito da scuola s’avviò nel corridoio sotterraneo verso la fermata del bus, e fece in tempo a sentire uno di loro che diceva: — Gesù! Guardalo, gli ha spaccato la faccia. — Ender appoggiò la fronte alla parete, e pianse fino all’arrivo dell’autobus. Sono uguale a Peter. Mi avete levato il monitor, e adesso sono proprio come Peter.

CAPITOLO SECONDO

PETER

— Ebbene, gli è stato tolto. Come se la cava?

— Vivendo nel corpo di qualcuno per qualche anno ci si abitua ad esso. Ma ora, guardando la sua faccia, non riesco a capire cosa gli succede. L’espressione dei lineamenti non mi dice molto. Io sono abituato a sentirla, più che a vederla.

— Avanti, qui non stiamo parlando di psicanalisi. Noi siamo militari, non medici-stregoni. Lei lo ha appena visto battere come un materasso il capo di quella piccola banda.

— Ha esagerato. Non si è limitato a vincerlo: lo ha schiacciato. Come Mazer Rackham fece agli…

— Me lo risparmi. Così, i membri della commissione hanno dato parere favorevole.

— Quasi tutti. Vediamo cosa succederà con suo fratello, ora che non ha più il monitor.

— Suo fratello. Lei non ha paura di ciò che suo fratello potrebbe fargli?

— È stato lei a dirmi che questa era una faccenda priva di rischi.

— Ho riesaminato alcuni dei nastri, e non posso fare a meno di preoccuparmi. Quel ragazzino mi piace. Ho idea che lo stiamo spremendo troppo.

— Questo è ovvio. È il nostro lavoro. Noi facciamo la parte della strega cattiva. Gli promettiamo il marzapane con le uvette, e poi ce li mangiamo vivi, quei piccoli bastardi.

— Mi spiace, Ender — mormorò Valentine, quando vide il cerotto che aveva sulla nuca.

Ender sfiorò il muro e la porta si chiuse dietro di lui. — Non m’importa. Sono contento di non averlo più.

— Cos’è che non hai più? — Peter entrò in salotto, con la bocca piena di pane e burro d’arachidi.

Ender non vedeva Peter come lo vedevano gli adulti: un bel ragazzo di dieci anni, con capelli corvini folti e scarmigliati ed un volto che avrebbe potuto appartenere ad Alessandro il Grande. Ender lo guardava soltanto per scoprire in lui la rabbia, o la noia, quegli umori pericolosi che quasi sempre significavano sofferenza per qualcuno. E quando Peter si accorse del cerotto, nei suoi occhi balenò un lampo di rabbioso disprezzo.

Anche Valentine lo notò. — Adesso è come noi — disse, cercando di placarlo prima che agisse in qualche modo violento.

Ma Peter non voleva esser placato. — Come noi? Ha tenuto quel maledetto coso fino a sei anni. Tu fino a quando? Ne avevi tre. E a me hanno tolto il mio che non avevo neppure cinque anni. Lui ce l’aveva fatta, lo stupido bastardo, piccolo scorpione.

Così va meglio, pensò Ender. Parla, Peter, continua pure. Parlare non fa male.

— Be’, adesso non hai più l’angelo custode che ti protegge, eh? — disse Peter. — Adesso non ti spiano più per sapere se soffri o ridi, per ascoltare quello che ti dico, per vedere quello che ti faccio. Che ne pensi, eh? Che ne pensi?

Ender scrollò le spalle.

D’improvviso Peter sorrise e batté le mani, in un’ironica imitazione di spensierata giovialità. — Facciamo una partita a Scorpioni e Astronauti — disse.

— Dov’è la mamma? — domandò Valentine.