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Painter annuì. «Ho sentito che coltivava un interesse morboso per l’occulto.»

«Un’ossessione, in effetti.» Anna scrollò le spalle. «Era una passione di molti in Germania. Risaliva a Madame Blavatskij, che coniò il termine ‘ariano’. Sosteneva di avere acquisito conoscenze segrete studiando in un monastero buddista. A suo dire alcuni maestri le avevano insegnato che l’umanità era regredita da una razza superiore e un giorno si sarebbe nuovamente evoluta. Un secolo dopo, Guido von List mescolò quelle credenze con la mitologia tedesca, dando un’origine nordica a quella mitica razza ariana.»

«E il popolo tedesco non solo abboccò, ma s’ingoiò anche la lenza e il galleggiante», aggiunse Painter, per stuzzicarla un po’.

«E perché no? Dopo la sconfitta nella prima guerra mondiale, un’idea del genere compiaceva la nostra vanità. Fu accolta in un fiorire di logge occulte in Germania. La società di Thule, la società di Vril, l’ordine dei Nuovi Templari.»

«A quanto ricordo, lo stesso Himmler apparteneva alla società di Thule.»

«Sì, il Reichsführer credeva appieno in questa mitologia e anche nella magia delle rune nordiche. È per questo che scelse le doppie rune sig, le due saette gemelle, per rappresentare il suo ordine di sacerdoti-guerrieri, la Schutzstaffel, o SS. Studiando l’opera di Madame Blavatskij, si convinse che la razza ariana fosse comparsa per la prima volta nella regione dell’Himalaya e che proprio qui sarebbe risorta.»

Lisa intervenne per la prima volta. «Perciò è vero che Himmler mandò spedizioni sull’Himalaya.» Scambiò uno sguardo con Painter. Ma l’uomo continuava a chiedersi che cosa significasse la frase criptica di Anna.

Non siamo nazisti. Non più.

Doveva incoraggiare la donna a parlare, fintanto che si dimostrava socievole. Intuiva una qualche trappola, ma non aveva idea di dove volesse andare a parare. Detestava brancolare nel buio, ma si rifiutava di darlo a vedere. «Allora, che cosa cercava Himmler quassù? Qualche tribù ariana perduta? Una Shangri-La a supremazia bianca?»

«Non esattamente. Con la scusa di fare ricerche antropologiche e zoologiche, Himmler inviò dei membri delle SS a cercare prove dell’esistenza di una razza scomparsa. E, sebbene non trovasse nulla, era sempre più determinato, sempre più immerso nella sua follia. Quando cominciò a costruire una roccaforte delle SS in Germania, un castello personale chiamato Wewelsburg, ne fece costruire una perfetta copia qui, trasportando in aereo mille schiavi dai campi di concentramento tedeschi. Mandò anche una tonnellata di lingotti d’oro per renderci autosufficienti. La cosa ha funzionato, grazie ad attenti investimenti.»

«Ma perché costruire qui?» chiese Lisa.

Painter intuì il motivo. «Credeva che la razza ariana sarebbe risorta da queste montagne. Stava costruendo la loro prima fortezza.»

Anna annuì, come a concedergli un punto in una immaginaria partita. «Credeva pure che i maestri occulti che avevano istruito Madame Blavatskij fossero ancora vivi. Stava costruendo una roccaforte per loro, una sede in cui concentrare tutte quelle conoscenze e quelle esperienze.»

«E questi maestri occulti si fecero mai vivi?» chiese Painter, in tono canzonatorio.

«No, ma alla fine della guerra comparve mio nonno. E portò con sé qualcosa di miracoloso, qualcosa che poteva far diventare realtà il sogno di Himmler.»

«E che cos’era?» chiese Painter.

Anna scosse la testa. «Prima di continuare, le devo fare una domanda. E apprezzerei una risposta onesta.»

Painter si accigliò per l’improvviso cambio di tono. «Sa che non le posso promettere una cosa simile.»

Anna sorrise per la prima volta. «Apprezzo anche questo piccolo esempio di onestà, signor Crowe.»

«Allora, qual è la sua domanda?» chiese lui, curioso. Dovevano essere arrivati al nocciolo.

«Lei è malato? Faccio fatica a stabilirlo. Sembra molto lucido.»

Painter sgranò gli occhi. Non si aspettava quella domanda.

Prima che potesse rispondere, Lisa disse: «Sì».

«Lisa…» l’ammonì Painter.

«Lo scoprirebbe comunque. Non ci vuole una laurea in medicina per accorgersene.» Lisa si voltò verso Anna. «Presenta sintomi vestibolari, nistagmo e disorientamento.»

«Emicranie e lampi nel campo visivo?»

Lisa annuì.

«Lo immaginavo.» Si appoggiò allo schienale. Sembrava che quell’informazione rassicurasse la donna. Painter era perplesso. Perché?

Lisa insistette. «Di cosa soffre? Penso che abbia il diritto di saperlo.»

«Ciò richiederà qualche altra spiegazione, ma posso dirle qual è la prognosi.»

«E cioè?»

«Morirà fra tre giorni. In modo orribile.»

Painter si costrinse a non reagire.

Lisa rimase altrettanto imperturbabile, mantenendo un tono clinico. «C’è una cura?»

Anna guardò Painter, poi ancora Lisa. «No.»

Copenhagen, Danimarca,

ore 23.18

Doveva portare la ragazza al sicuro, da un medico. Gray sentiva il sangue che colava dalla ferita di Fiona, inzuppandole la camicetta, mentre la sosteneva, cingendola con un braccio.

Attorno a loro la folla premeva. I flash delle macchine fotografiche mettevano Gray in costante allerta. Dal lago arrivava l’eco di musica e canzoni, mentre la parata proseguiva. Giganteschi fantocci animati sfilavano dondolando e ciondolando sopra le teste degli astanti. I fuochi d’artificio continuavano a esplodere fragorosamente.

Gray ignorava tutto quanto. Stava basso, cercando il cecchino che aveva sparato a Fiona. Aveva dato una breve occhiata alla sua ferita. Era stata colpita di striscio, aveva soltanto un’escoriazione, che però trasudava sangue. Aveva bisogno di assistenza medica. Era pallidissima per il dolore.

Il colpo l’aveva raggiunta da dietro. Il che significava che il cecchino doveva essere appostato tra gli alberi e i cespugli. Era una fortuna che si fossero mischiati alla gente. Ma erano stati individuati e probabilmente i loro inseguitori stavano già convergendo sul posto: sicuramente qualcuno di loro si era già mescolato alla folla.

Gray guardò l’orologio: mancavano quaranta minuti alla chiusura del parco.

Gli serviva un piano, un nuovo piano. Non potevano più aspettare mezzanotte per fuggire. Sarebbero stati scoperti prima. Dovevano andarsene subito, ma il tratto fra la zona della parata e l’uscita era quasi deserto, poiché quasi tutti i visitatori erano radunati attorno al lago. Se avessero tentato una corsa folle verso l’uscita sarebbero stati vulnerabili e sicuramente anche i cancelli erano sorvegliati.

Accanto a lui, Fiona teneva una mano premuta sul fianco. Il sangue le colava tra le dita. Lo guardò, in preda al panico e gli sussurrò: «Che cosa facciamo?»

Gray continuò a muoversi tra la folla. Aveva soltanto un’idea: era pericolosa, ma la prudenza non li avrebbe fatti uscire dal lunapark. «Devo insanguinarmi le mani.»

«Cosa?»

Indicò la camicetta della ragazza. Perplessa, lei ne sollevò un lembo. «Fai attenzione…»

Lui raccolse delicatamente il sangue che gocciolava dalla ferita. Fiona trasalì ed emise un lieve gemito.

«Scusa», disse lui.

«Hai le dita gelate», borbottò lei.

«Tutto bene?»

«Sopravvivrò.»

Era proprio quello l’obiettivo.

«Tra un secondo dovrò prenderti in braccio», annunciò Gray.

«Che cosa…»

«Stai pronta a urlare quando te lo dico io.»

Lei arricciò il naso, confusa, ma annuì.

Gray aspettò il momento giusto. In lontananza cominciarono a suonare flauti e tamburi. Spinse Fiona nella direzione del cancello principale. Passato un gruppo di scolari, individuò una sagoma familiare con uno spolverino nero e il braccio al collo: l’assassino di Grette. Si faceva strada fra i gruppi di ragazzini, sondando la folla con gli occhi.

Gray batté in ritirata, mescolandosi a una massa di tedeschi che cantavano una ballata, in armonia coi flauti e coi tamburi. La canzone si concluse con un’esplosione di fuochi d’artificio e una gragnola di scoppi, a mo’ di timpani.