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«È la sfilata di Hans Christian Andersen», disse Fiona. «Celebra il duecentesimo anniversario dello scrittore, santo patrono della città.»

Gray avanzò con lei verso la folla assiepata ai lati del percorso dei carri, attorno al lago. Un gigantesco fiore infuocato esplose nel cielo, specchiandosi nell’acqua, accompagnato da una potente detonazione. Fantastiche cascate di lucenti stelle filanti dipinsero spirali, fischiando nel cielo notturno.

Mentre si avvicinavano alla folla che confluiva verso la parata, Gray manteneva una vigilanza costante, attento a individuare tutte le persone dalla carnagione chiara vestite di nero. Ma erano a Copenhagen. Una persona su cinque era bionda e il nero, a quanto sembrava, era l’ultimo grido in Danimarca.

Il cuore di Gray batteva a tempo coi tamburi. Una breve salva di fuochi d’artificio gli martellò il petto e i timpani. Ma finalmente avevano raggiunto le altre persone radunate per lo spettacolo.

Sopra di loro un altro fiore incandescente crepitò ed esplose, con una pioggia di fuoco.

Fiona inciampò.

Gray l’afferrò, mentre sentiva fischiare le orecchie.

Quando l’eco dell’esplosione svanì, Fiona lo guardò, scioccata. Sollevò una mano da un fianco e gliela mostrò, mentre lui la trascinava in mezzo alla folla.

Fiona aveva il palmo della mano coperto di sangue.

Himalaya,

ore 04.02

Painter si svegliò nel buio: il fuoco era spento. Quanto aveva dormito? Senza finestre, erano fuori dal tempo. Ma intuiva che non ne era trascorso molto. Qualcosa l’aveva svegliato.

Si sollevò su un gomito.

All’altro capo del letto, anche Lisa era sveglia e guardava verso la porta. «Hai sentito?»

La stanza tremò violentemente. Furono raggiunti da un sonoro bum; era lontano, ma lo sentirono nelle viscere.

Painter gettò indietro le coperte. «Guai.»

Indicò la pigna di vestiti freschi forniti dai loro ospiti. Si vestirono rapidamente: calzamaglie e maglie a maniche lunghe, jeans pesanti e consunti e maglioni ingombranti.

Lisa accese le candele accanto al letto. Infilò i piedi in un paio di robusti stivali di cuoio, più adatti a un uomo. Attesero in silenzio per qualche tempo, forse venti minuti.

Entrambi si lasciarono cadere nuovamente sul letto.

«Secondo te che cosa è successo?» sussurrò Lisa.

Sentirono l’eco di una voce alterata.

«Non lo so, ma penso che lo scopriremo presto.»

Si udì un rumore di stivali nel corridoio, oltre la pesante porta di legno di quercia.

Painter si alzò, tendendo un orecchio. «Vengono da questa parte.»

In effetti, qualcuno bussò forte alla porta. Sollevando un braccio, Painter tenne indietro Lisa e retrocedette a sua volta. Poi sentirono sfregare la sbarra di ferro che li teneva chiusi dentro.

La porta si aprì e quattro uomini irruppero nella stanza, puntando i fucili contro di loro. Poi ne entrò un quinto. Somigliava molto all’assassino di nome Gunther. Un gigante di uomo, dal collo taurino, coi capelli a spazzola, color argento o grigio chiaro. Indossava ampi pantaloni marroni, infilati in stivali alti fino alla coscia, e una camicia dello stesso colore. Gli mancavano soltanto la fascia nera al braccio e la svastica, per il resto era un perfetto soldato delle truppe d’assalto naziste.

O, meglio, ex naziste.

Aveva anche la stessa faccia pallida di Gunther, ma sembrava che avesse qualche problema. Il lato sinistro del volto era inerte, come se avesse subito un ictus.

Il braccio sinistro era mezzo paralizzato e tremava mentre indicava la porta. «Kommen Sie mit mir!»

Stava ordinando loro di uscire. Il corpulento caposquadra si girò e s’incamminò a grandi passi, come se persino l’idea di disobbedire fosse semplicemente inconcepibile. D’altro canto, i fucili che i prigionieri avevano puntati nella schiena non potevano che consolidare la sua presunzione.

Painter fece un cenno col capo a Lisa. Lei lo affiancò mentre uscivano, seguiti dal quartetto di guardie. Il corridoio era angusto, scolpito nella roccia, largo a malapena per due persone. L’unica illuminazione proveniva dalle torce elettriche affrancate ai fucili delle guardie, che proiettavano ombre danzanti davanti a loro. Il corridoio era decisamente più freddo della loro stanza, ma non era gelido.

Non fecero molta strada. Secondo le stime di Painter, erano diretti verso la facciata del castello. Aveva ragione. Sentì persino il vento fischiare in lontananza. Fuori doveva essere ripresa la tempesta.

Davanti a loro, il corpulento caposquadra bussò a una porta di legno intagliato. Una risposta ovattata lo incoraggiò a entrare. Il corridoio s’illuminò di una luce calda, accompagnata da un’ondata di calore. La guardia entrò e tenne aperta la porta.

Anche Painter e Lisa entrarono nella stanza e si guardarono attorno. Sembrava una biblioteca, in stile rustico. Era su due piani, con scaffalature aperte su tutt’e quattro le pareti. Il livello superiore era cinto da una balconata di ferro, pesante e senza fronzoli. L’unica strada per salire era una scala a pioli.

La fonte di calore era un grande focolare di pietra, in cui bruciava un piccolo falò. Da un dipinto a olio, un uomo con un’uniforme tedesca li guardava dall’alto in basso.

«Mio nonno», spiegò Anna Sporrenberg, notando lo sguardo di Painter. Si alzò da una mostruosità di scrivania intagliata. Anche lei indossava jeans scuri e un maglione. A quanto sembrava, era l’abbigliamento prescritto al castello. «Rilevò il castello dopo la guerra.»

La donna indicò loro alcune poltrone dallo schienale alto e avvolgente, disposte in cerchio di fronte al camino. Painter notò che aveva le occhiaie. Sembrava che non avesse dormito affatto. Inoltre, odorava di fumo, un odore simile alla cordite. Interessante. Incrociò il suo sguardo mentre si avvicinava alle poltrone. Sebbene fosse esausta, la donna aveva occhi accesi e penetranti: erano astuti, rapaci e calcolatori. Una persona da cui stare in guardia. Sembrava che anche lei lo stesse valutando con la stessa intensità.

Che cosa stava succedendo?

«Setzen Sie sich, bitte», disse la donna, indicando le sedie.

Painter e Lisa si sedettero l’uno accanto all’altra. Anna scelse una poltrona dalla parte opposta. La guardia rimase accanto alla porta chiusa, con le braccia conserte. Painter sapeva che le altre guardie aspettavano fuori. Esaminò la stanza in cerca di vie di fuga. L’unica altra uscita era una finestra infossata, che dava sull’oscurità, sbarrata da una griglia di ferro. Impossibile fuggire di lì.

Painter rivolse nuovamente la sua attenzione ad Anna. Forse c’era un’altra via d’uscita. I modi della donna erano cauti, ma sicuramente li aveva convocati per un motivo. Lui aveva bisogno di tutte le informazioni possibili, ma avrebbe dovuto gestire la situazione con abilità. Notò la somiglianza tra Anna e l’uomo del dipinto. Era un buon punto di partenza.

«Ha detto che suo nonno ha rilevato il castello», esordì, cercando di estorcere qualche risposta, rimanendo su un terreno sicuro. «A chi apparteneva, prima?»

Anna si appoggiò allo schienale della poltrona, traendo evidente sollievo da quel momento di quiete davanti al camino. Tuttavia manteneva la concentrazione. Con le mani in grembo, lanciò un breve sguardo a Lisa e poi si rivolse di nuovo a lui. «Il Granitschloß ha una storia lunga e oscura, signor Crowe. Ha sentito parlare di Heinrich Himmler?»

«Certo, il capo delle SS.»

«Ja. Era un macellaio e un pazzo.»

Painter fu sorpreso di sentire quei giudizi. Era forse un trucco? Intuiva che c’era sotto qualcosa, ma non conosceva le regole del gioco. Non ancora.

Anna proseguì: «Himmler credeva di essere la reincarnazione di Enrico, un tedesco, re dei sassoni nel X secolo. Pensava anche di ricevere messaggi medianici da lui».