— Oh, non sapevo che i coccodrilli potessero farlo — disse senza scomporsi.

— Si tratta semplicemente di un’antica scrittura per immagini — si affrettò a spiegare il mago. — Se aspetti, vedrai che cambierà. Gli Incantesimi possono apparire in ogni lingua conosciuta.

— Ti ricordi che cosa hai detto quando è comparso il colore sbagliato?

Scuotivento fece scorrere il dito sulla pagina.

— Lì, credo. Dove la lucertola a due teste sta facendo… qualsiasi cosa stia facendo.

Duefiori si sporse dietro l’altra spalla della ragazza. L’Incantesimo si tramutò in un’altra scrittura.

— Non so nemmeno pronunciarla — disse Bethan. — Circonflesso, circonflesso, punto, linea.

— Sono i geroglifici nevosi del Cupumuguk — dichiarò Scuotivento. — Credo che si dovrebbe pronunciare "zcr".

— Però non ha funzionato. Che ne dici di "scr"? Guardarono la parola. Che rimase del medesimo colore.

— Oppure "scc" — suggerì Bethan.

— Potrebbe essere "csff" — disse dubbioso il mago. Se mai, il colore brunastro si accentuò.

Fu la volta di Duefiori: — E se fosse "rsff"?

— Non essere sciocco — lo rimbeccò l’amico. — Con i geroglifi nevosi il…

Bethan gli allentò una gomitata nello stomaco e puntò il dito.

Nell’aria la forma brunastra era diventata di un rosso brillante.

Il libro tremò nelle mani della ragazza. Scuotivento l’afferrò per la vita, acchiappò Duefiori per il colletto e fece un salto indietro.

L’Octavo sfuggì dalle dita di Bethan e cadde. Ma non giunse a terra.

L’aria intorno all’Octavo si fece luminosa. Il libro s’innalzò lentamente, battendo le pagine come fossero ali.

Con un suono musicale, dolcemente vibrante, sembrò esplodere in un intricato, silenzioso fiore di luce, che si mosse rapido in avanti, impallidì, scomparve.

Ma qualcosa stava accadendo molto più in alto nel cielo…

Giù nelle profondità geologiche dell’enorme cervello della Grande A’Tuin nuovi pensieri si formavano lungo percorsi neurali grandi come arterie stradali. Sebbene impossibile per una tartaruga celeste cambiare di espressione, in qualche modo indefinibile la sua faccia squamosa bucherellata da crateri di meteore aveva assunto un’aria di aspettativa.

Guardava fisso le otto sfere orbitanti senza posa intorno alla stella, sulle rive dello spazio.

Le sfere s’incrinarono.

Se ne staccarono grossi segmenti rocciosi che cominciarono la loro lunga discesa verso la stella. Il cielo si riempì di frammenti scintillanti.

Un uovo si schiuse e una piccolissima tartaruga celeste prese a nuotare nella luce rossa. Era appena più grande di un asteroide, il guscio ancora luccicante del tuorlo liquefatto.

E sul suo guscio c’erano anche quattro piccoli elefantini. Che sostenevano sulle loro schiene un mondo-Disco, ancora minuscolo, coperto di polvere e di vulcani.

La Grande A’Tuin attese finché tutte le otto tartarughine, liberatesi dei loro gusci, si furono avviate, ancora incerte, per lo spazio. Solo allora, con cautela per non spostare nulla, la vecchia tartaruga si girò e si accinse con grande sollievo alla lunga nuotata che l’avrebbe ricondotta alle profondità infinite, deliziosamente fredde, dello spazio.

Le giovani tartarughe tenevano dietro, nell’orbita della loro genitrice.

Duefiori contemplava rapito la scena che si svolgeva in alto. Godeva probabilmente della vista migliore che chiunque potesse avere sul Disco.

All’improvviso fu colto da un pensiero terribile.

— Dov’è la scatola a immagini? — chiese con ansia.

— Che cosa? — gli rispose Scuotivento con gli occhi fissi al cielo.

— La mia scatola a immagini. Devo ritrarre questa scena!

— Non ti basterebbe ricordarla? — ribatté Bethan senza guardarlo.

— Potrei dimenticarmene.

— Io non la dimenticherò mai — esclamò lei. — È la cosa più bella che abbia mai visto.

Cohen fu d’accordo. — Molto meglio dei piccioni e delle palle da biliardo. Lo ammetto, Scuotivento. Come è successo?

— Non lo so.

— La stella sta diventando più piccola — disse Bethan.

Scuotivento si rendeva vagamente conto della voce di Duefiori che discuteva con il demone che albergava nella scatola e dipingeva le immagini. L’argomento era tecnico e riguardava la profondità di campo e se l’omuncolo avesse o no ancora abbastanza colore rosso.

Occorre far presente che generalmente la Grande A’Tuin era molto contenta e soddisfatta. E sensazioni simili, in un cervello delle dimensioni di parecchie grandi città, sono destinate a irradiarsi. E infatti la maggioranza degli abitanti del Disco erano di uno stato d’animo quale normalmente si raggiunge solo con una vita di meditazione o con una fumatina d’erba.

"Quello è il vecchio Duefiori" pensò Scuotivento. "Non che sia incapace di apprezzare la bellezza, semplicemente l’apprezza a modo suo. Voglio dire, se un poeta vede un asfodelo, lo guarda e ci scrive su una poesia. Invece Duefiori se ne va a cercare un libro di botanica. E il fiore lo calpesta. Cohen ha detto giusto. Il nostro amico guarda le cose, ma nulla di ciò che guarda è più lo stesso. Incluso me, sospetto."

Il sole del Disco si levò. La stella stava già scemando e non era più in grado di competere. La buona, fidata luce del Disco bagnava, simile a un mare d’oro, il paesaggio incantato.

O, come sostenevano generalmente gli osservatori più qualificati, simile a uno sciroppo dorato.

Un bel finale drammatico. Ma la vita non funziona così. C’erano altre cose destinate ad accadere.

C’era l’Octavo, per esempio.

Non appena fu toccato dalla luce del sole, il libro si richiuse e cominciò la sua discesa verso la torre. Molti dei presenti si resero allora conto che su di loro stava venendo giù l’unica cosa veramente magica di tutto il mondo-Disco.

Il sentimento di beatitudine e di fratellanza evaporò insieme con la rugiada mattutina. Scuotivento e Duefiori furono spinti da parte a gomitate dalla folla delle persone che si precipitavano in avanti, lottando e travolgendosi, le mani tese.

L’Octavo cadde in mezzo alla massa urlante. Vi fu uno scatto. Uno scatto deciso, il genere di scatto prodotto da un coperchio che non ha nessuna fretta di aprirsi.

Scuotivento lanciò un’occhiata a Duefiori, sbirciando tra le gambe della gente.

— Sai che cosa credo stia per accadere? — gli chiese con una smorfia divertita.

— Cosa?

— Credo che quando aprirai il Bagaglio, dentro ci sarà semplicemente la tua biancheria, ecco che cosa credo.

— Oh, povero me!

— Penso che l’Octavo sa come badare a se stesso. Quello è il posto migliore per lui, davvero.

— Suppongo di sì. Sai, qualche volta ho la sensazione che il Bagaglio sappia esattamente quello che fa.

— So che vuoi dire.

Strisciarono fuori dalla folla in tumulto, si rialzarono, si tolsero via la polvere e si diressero verso la scala. Nessuno prestò loro attenzione.

— Cosa stanno facendo? — domandò Duefiori, che si sforzava di guardare sopra le teste della calca.

— Pare che stiano cercando di forzare il coperchio — rispose il mago.

Si udì uno scatto e un urlo.

— Secondo me, il Bagaglio è molto compiaciuto dell’attenzione che riscuote — osservò Duefiori, mentre scendevano con precauzione giù per la scala a chiocciola.

— Sì, probabilmente gli fa bene uscire e incontrare gente. E adesso — concluse Scuotivento — credo che mi farebbe bene andare a ordinare un paio di bicchieri.

— Buona idea — approvò Duefiori. — Ne berrò un paio anch’io.

Duefiori si svegliò che era quasi mezzogiorno. Non ricordava perché si trovasse in un fienile o perché indossasse una giacca non sua. Ma si svegliò con un’idea ben precisa in mente.

Decise che era di vitale importanza parlarne a Scuotivento.