— Non noi — replicò con fermezza Scuotivento.

— Dammi l’Incantesimo!

— Prova a prenderlo. — Scuotivento indietreggiò. — Non penso che ne sei capace.

— Oh?

Scuotivento fece un salto di lato mentre una fiammata di ottarino si sprigionò dalle dita dell’altro e lasciò sulle pietre un ammasso di roccia ribollente.

Sentiva l’Incantesimo rintanarsi nelle profondità della sua mente. Sentiva che aveva paura.

Volle raggiungerlo nelle silenziose caverne della sua testa. Quello, colto di sorpresa, si ritirò come un cane di fronte a una pecora impazzita. Lui lo inseguì, incollerito, attraverso i quartieri in disuso e le zone urbane disastrate del suo subconscio, finché lo scovò nascosto dietro un mucchio di ricordi rimossi. Né si curò della sfida che gli veniva lanciata in silenzio.

"È così allora?" gli urlò Scuotivento. "Quando arriva il momento della resa dei conti, tu vai a nasconderti? Hai paura?"

L’Incantesimo ribatté: "Sciocchezze, non puoi credere una cosa simile. Io sono uno degli Otto Incantesimi". Ma Scuotivento, senza lasciarsi smontare, gridò avanzando: "Forse, ma il fatto è che ci credo e tu farai meglio a ricordarti a chi appartiene la testa in cui ti trovi, giusto? Qui dentro, posso credere a tutto ciò che mi pare!".

Evitò con un salto di lato un’altra fiammata che dardeggiò nell’aria arroventata della notte. Con un sogghigno, Trymon fece un gesto complicato con le mani.

Scuotivento si sentì sottoposto a una pressione enorme. Gli pareva che ogni centimetro della sua pelle venisse usato come un’incudine. Cadde in ginocchio.

— Ci sono in serbo molte altre cose peggiori — gli disse Trymon, sempre in tono affabile. — Posso farti bruciare la carne fino alle ossa o riempire di formiche il tuo corpo. Ho il potere di…

— Io ho una spada, sai.

Era una voce che la sfida rendeva stridula.

Scuotivento alzò la testa. Attraverso un velo rossastro di dolore, vide Duefiori che, in piedi dietro a Trymon. reggeva una spada esattamente nella maniera sbagliata.

Trymon scoppiò a ridere e flesse le dita. Per un attimo si distrasse.

Scuotivento era in collera. In collera con l’Incantesimo, con il mondo, con l’ingiustizia di tutto, con il fatto che ultimamente non aveva dormito molto e con il fatto che era incapace di ragionare a dovere. Ma più di tutto era in collera con Trymon, che se ne stava lì pieno della magia che lui, Scuotivento, aveva sempre desiderata ma non aveva mai posseduta, mentre l’altro non ci combinava nulla di buono.

Con un balzo in avanti, sferrò una testata nello stomaco di Trymon e lo strinse in una morsa disperata. Duefiori fu buttato a terra mentre i due, allacciati, scivolavano sulle pietre.

Trymon ringhiò pronunciando la sillaba iniziale di un incantesimo prima che il gomito di Scuotivento lo colpisse selvaggiamente nel collo. Una raffica di magia liberata a casaccio bruciacchiò i capelli del nostro amico.

Scuotivento combatteva come aveva sempre fatto, senza nessuna destrezza o lealtà o tattica, ma con turbinio di colpi. Una strategia per impedire che l’avversario avesse tempo sufficiente per rendersi conto che in realtà lui non era un lottatore molto bravo e nemmeno molto forte. Strategia che spesso funzionava.

Funzionò anche in quella occasione, perché Trymon aveva trascorso troppo tempo nella lettura di antichi manoscritti e aveva trascurato un sano esercizio nonché le vitamine. Riuscì comunque a piazzare diversi colpi, ma Scuotivento era troppo infuriato per accorgersene. Però, mentre lui usava soltanto le mani, Scuotivento adoperava anche le ginocchia, i piedi e perfino i denti.

In effetti, stava vincendo.

Per lui fu un vero e proprio shock.

E ancora di più quando, inginocchiato sul petto di Trymon e colpendolo ripetutamente sulla testa, il viso dell’altro cambiò. La pelle s’increspò e ondeggiò come qualcosa vista nel riverbero del calore. E Trymon parlò.

— Aiutami!

Per un momento i suoi occhi si alzarono su Scuotivento, spaventati, sofferenti, imploranti. Poi non erano più occhi. Ma esseri dai molteplici aspetti su una testa che poteva chiamarsi tale soltanto estendendo la definizione al suo estremo limite. Tentacoli, zampe seghettate, artigli si allungarono per strappare dal corpo di Scuotivento una carne già alquanto scarsa.

Duefiori, la torre, il cielo rosso, tutto svanì. Il tempo trascorreva lento, e si fermò.

Scuotivento azzannò un tentacolo che cercava di portargli via la faccia e che, dal dolore insopportabile, lasciò la presa. Lui lanciò in avanti una mano e sentì spezzarsi qualcosa calda e molliccia.

Loro stavano osservando. Scuotivento girò la testa e vide che stava ora lottando sul pavimento di un enorme anfiteatro. Su ciascun lato, file e file di creature lo fissavano, creature i cui corpi e i cui volti sembravano essere il risultato di orribili incubi. Ebbe appena il tempo d’intravedere dietro a sé esseri ancora peggiori, ombre enormi che si allungavano nel ciclo velato, prima che Trymon il mostro cercasse di colpirlo con un aculeo uncinato delle dimensioni di una lancia.

Scuotivento fece uno scarto di lato e poi si rigirò con le due mani allacciate in un pugno che colse l’essere nello stomaco, o forse il torace, con un colpo che terminò nel gratificante scricchiolio della dura corazza di chitina.

Si scagliò in avanti e lottò, spinto dai terrore di ciò che sarebbe accaduto se si fosse fermato. L’arena spettrale risuonava del pigolio delle creature Sotterranee, un muro di suono frusciante che gli martellava le orecchie mentre combatteva. S’immaginò quel suono riempire il Disco, e sferrò colpo su colpo per salvare il mondo degli uomini, per preservare il piccolo cerchio di luce nella nera notte del caos e chiudere il varco attraverso il quale l’incubo stava avanzando. Ma soprattutto colpiva l’essere mostruoso per evitare di essere colpito a sua volta.

Unghioni o artigli gli disegnarono solchi roventi sulla schiena e qualcosa gli morse una spalla, ma lui trovò un groviglio di tubi molli in mezzo al pelame e alle scaglie e lo serrò con forza.

Venne spazzato via da un braccio armato di aculei e rotolò nella polvere nera e granulosa.

Istintivamente si raggomitolò a palla, ma non accadde nulla. Invece dell’attacco furioso che si aspettava, aprì gli occhi e vide la creatura allontanarsi da lui zoppicando e sgocciolante liquidi vari.

Era la prima volta che qualcosa fosse mai fuggita da Scuotivento.

Lui si tuffò, afferrò una gamba squamosa e la torse. La creatura gli pigolò contro e batté disperatamente l’aria con le appendici che ancora funzionavano, senza riuscire a liberarsi della presa di Scuotivento. Questi si raddrizzò e piazzò un ultimo colpo nell’occhio che le restava. Quella urlò e corse via. E c’era un unico luogo verso il quale potesse correre.

Un clic e il tempo fu ripristinato, riportando indietro e la torre e il cielo rosso.

Non appena si sentì sotto i piedi le lastre di pietra, Scuotivento spostò il proprio peso da un lato e si rotolò sulla schiena, tenendo a distanza la creatura che si dimenava frenetica.

— Ora! — gridò.

— Ora che cosa? — disse Duefiori. — Oh, sì. Giusto!

Roteò la spada con mano inesperta ma con una certa forza, mancò di poco l’amico, e la conficcò dentro la Cosa. Un ronzio stridente, come se avesse fracassato un vespaio, un agitarsi confuso di braccia, zampe, tentacoli nel parossismo del dolore. La creatura rotolò ancora, urlando e sferzando le pietre. Continuò ancora a sferzare, ma a vuoto ormai, perché ruzzolò giù per la scala, portando con sé Scuotivento.

Rimbalzò prima con un tonfo giù per pochi gradini di pietra, quindi si udì in distanza un urlo che si andava via via affievolendo, mentre precipitava nelle profondità della torre.

Alla fine seguì un’esplosione soffocata e il lampo di luce dell’ottarino.

Duefiori ormai era solo in cima alla torre… solo, cioè, salvo che per i sette maghi tuttora immobili come congelati sul posto.