L’ometto, seduto, contemplava stupefatto sette palle di fuoco levarsi dall’oscurità e immergersi nell’Octavo, che giaceva abbandonato, e che improvvisamente ritornò quello di un tempo e assai più interessante.

— Oh, povero me — esclamò il turista. — Suppongo che siano gli Incantesimi.

— Duefiori. — La voce risuonava cavernosa, appena riconoscibile per quella di Scuotivento.

La mano di Duefiori, che stava per prendere il libro, s’immobilizzò.

— Sì? Sei… sei tu, Scuotivento?

— Sì — rispose la voce, che pareva provenire dalla tomba. — E desidero che tu faccia per me una cosa molto importante, Duefiori.

Questi si guardò intorno e riprese animo. Così, dopo tutto, il fato del Disco sarebbe dipeso da lui.

— Sono pronto — affermò con la voce vibrante d’orgoglio. — Che vuoi che faccia?

— Anzitutto, voglio che mi ascolti con grande attenzione — rispose pazientemente la voce disincarnata del mago.

— Ti ascolto.

— È molto importante che, quando ti dico cosa fare, tu non mi rispondi "Cosa intendi?" o ti metti a discutere o altro, capito?

Duefiori si mise sull’attenti. Almeno, la sua mente si mise sull’attenti, perché al suo corpo era impossibile. Sporse in fuori diversi dei suoi doppi menti.

— Sono pronto — dichiarò.

— Bene. Ora, ciò che desidero tu faccia è…

— Sì?

La voce di Scuotivento veniva su dalla tromba della scala.

— Voglio che vieni ad aiutarmi prima che io perda la presa su questa pietra.

Duefiori aprì la bocca e subito la richiuse. Corse a guardare giù dall’apertura quadrata. Alla luce rossastra della stella, riuscì a vedere soltanto gli occhi dell’amico alzati verso di lui.

Duefiori si sdraiò a terra bocconi e allungò una mano. Quella di Scuotivento gli afferrò il polso con tanta forza da fargli capire che, se l’amico non veniva tirato su, allora in nessun modo la sua presa si sarebbe allentata.

— Sono contento che sei vivo — gli disse.

— Bene. Io pure — replicò Scuotivento.

Rimase per un po’ a penzolare nel buio. Dopo gli ultimi pochi minuti era una sensazione quasi piacevole, ma soltanto quasi.

— Allora tirami su — gli consigliò.

— Secondo me, potrebbe essere un po’ difficile — borbottò Duefiori. — In realtà, non credo di farcela.

— Allora che cosa stai reggendo?

— Te.

— Intendo, oltre me.

— Che vuoi dire, oltre te? — chiese l’ometto.

Scuotivento pronunciò una parola.

— Be’, guarda — ribatté Duefiori. — I gradini formano una spirale, esatto? Se io ti faccio dondolare e poi tu ti lasci andare…

— Se mi suggerisci che io tenti di lasciarmi cadere da sei metri giù in una torre nera come la pece nella speranza di atterrare su un paio di gradini piccoli e scivolosi, che potrebbero anche non esserci, te lo puoi scordare — protestò seccamente il mago.

— Allora c’è un’alternativa.

— Tirala fuori.

— Potresti precipitare da centocinquanta metri giù in una torre nera come la pece e andare a schiantarti su delle pietre che certamente ci sarebbero — disse Duefiori.

Un silenzio mortale. Poi: — Questo era sarcasmo — lo accusò Scuotivento.

— Per me era semplicemente affermare una cosa ovvia. Da parte di Scuotivento venne un brontolio.

— Immagino che non potresti fare un po’ di magia… — cominciò l’amico.

— No.

— Era solo un’idea.

Giù in basso si produsse un lampo di luce, grida confuse, quindi altre luci, altre grida, e una fila di torce che saliva su per la lunga spirale.

— C’è gente che sta venendo su per la scala — annunciò Duefiori, il quale amava sempre dare informazioni.

— Spero che stiano correndo. Non mi sento più il braccio.

— Sei fortunato — replicò l’ometto. — Io il mio lo sento.

La torcia che guidava la fila si fermò e si fece udire una voce, che riempì di echi indecifrabili la cavità della torre.

Duefiori si rendeva conto di stare gradatamente scivolando in avanti verso il buco. Disse: — Credo che ci stiano dicendo di tenere duro.

Scuotivento pronunciò un’altra parola.

Subito dopo disse, in tono più basso e pieno di angoscia: — Il fatto è che non credo di reggere più a lungo.

— Tenta.

— Non serve. Sento che la mano mi sta scivolando!

Duefiori sospirò. Era arrivato il momento di prendere misure drastiche. — Benissimo, allora. Lasciati andare. Guarda se me ne importa.

— Cosa? — Scuotivento era talmente sorpreso che si dimenticò di lasciarsi cadere.

— Forza, muori. Scegli la via più facile.

— Facile?

— Non devi fare altro che gettarti a capofitto giù e romperti ogni osso che hai in corpo… Chiunque può farlo. Forza. Non voglio ricordarti che forse dovresti restare in vita perché abbiamo bisogno che tu pronunci gli Incantesimi e salvi il Disco. Oh, no. A chi interessa se finiamo tutti bruciati. Dai, pensa soltanto a te stesso. Lasciati andare.

Seguì un lungo silenzio imbarazzato.

Alla fine Scuotivento disse, a voce più alta del necessario: — Non so come sia, ma da quando ti ho conosciuto, mi sembra di avere trascorso un sacco di tempo appeso per le dita sopra un qualche abisso. Lo hai notato?

— Morte — lo corresse Duefiori.

— Come, morte?

Duefiori cercava d’ignorare il fatto che il suo corpo stava scivolando, adagio ma inesorabilmente, sulle lastre di pietra. — Appeso sopra una qualche morte. A te i luoghi alti non piacciono.

— Dei luoghi alti non m’importa — replicò dall’oscurità la voce del mago. — Posso viverci con i luoghi alti. In questo momento sono le profondità che mi preoccupano. Sai che farò quando usciamo di qui?

— No. — Duefiori puntò le dita dei piedi in una fessura tra due lastre di pietra e cercò di restare immobile con la pura forza della volontà.

— Mi costruirò una casa nel paese più piatto che riesco a trovare, avrà solo il pianterreno e non porterò nemmeno dei sandali con le suole spesse…

La prima torcia comparve all’ultimo tornante della spirale e Duefiori si ritrovò a guardare la faccia sorridente di Cohen. Dietro a lui, ancora saltellante goffamente su per gli scalini, distinse la sagoma rassicurante del Bagaglio.

— Tutto bene? — chiese Cohen. — Posso fare niente? Scuotivento tirò un gran sospiro.

Duefiori riconobbe i segni. L’amico stava per dire una frase come "Sì, sento un prurito dietro il collo, potresti darci una grattatina, mentre passi?" oppure "No, ci godo a stare appeso sopra un baratro". E decise che in nessun modo avrebbe potuto tollerarlo. Si affrettò a prevenirlo.

— Spingi Scuotivento di nuovo sulla scala — ordinò.

Scuotivento, in procinto di fare la sua battuta, si sgonfiò.

Cohen lo afferrò per la vita e lo depositò sui gradini senza tante cerimonie.

— Sul pavimento laggiù c’è un bel macello — annunciò in tono discorsivo. — Chi era?

— Aveva — Scuotivento deglutì — aveva… sai… tentacoli e roba del genere?

— No. Solo i resti normali — rispose Cohen. — Un po’ spiaccicati, naturalmente.

Scuotivento guardò Duefiori, che scosse la testa.

— È solo un mago che si è lasciato prendere la mano — disse.

Scuotivento, con passo incerto e le braccia doloranti, si lasciò aiutare a risalire in cima alla torre.

— Come sei arrivato qui? — aggiunse.

Cohen additò il Bagaglio che si era avvicinato a Duefiori trotterellando e aveva spalancato il coperchio, come un cane che sa di essersi comportato male e spera di evitarsi la giusta punizione con un rapido sfoggio di affettuosità.

— Un po’ sobbalzante ma veloce — disse con ammirazione il vecchio eroe, rivolto a Duefiori. — Nessuno ci prova a fermarlo, te lo dico io.

Scuotivento guardò il cielo. Era pieno di lune, enormi dischi bucherellati di crateri, divenuti ormai dieci volte più grandi del piccolo satellite del Disco. Li fissò senza grande interesse. Si sentiva esausto e teso ben oltre il punto di rottura, fragile come un vecchio elastico.