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«Alberi-casa» rispose Aenea, con un sorriso. «Un mucchio di alberi-casa. E anche qualche cupola sottomarina. Dove i pagani trascorrevano la maggior parte del tempo.»

«Così hai progettato alberi-casa.»

Aenea scosse la testa. «Scherzi? Escludendo i templari di Bosco Divino, ormai scomparsi, gli indigeni di Patto-Maui sono i migliori costruttori di alberi-casa dello spazio umano. Ho studiato come costruire alberi-casa! Sono stati tanto gentili da consentire a me e ad A. Bettik di aiutarli.»

«Lavoro schiavista.»

«Esattamente.»

Aenea aveva trascorso solo tre mesi standard su Patto-Maui. Lì aveva conosciuto Theo Bernard.

«Una ribelle pagana?» domandai.

«Una cristiana fuggiasca» mi corresse Aenea. «Era giunta a Patto-Maui come colona. Aveva abbandonato i coloni e si era unita ai siriti.»

Senza accorgermene, avevo corrugato la fronte. «Porta il crucimorfo?» domandai. I cristiani rinati mi innervosivano ancora.

«Non più.»

«Ma come…» L’unico modo in cui un cristiano con la croce potesse liberarsi del crucimorfo era il rituale segreto della scomunica che solo la Chiesa poteva officiare.

«Te lo spiegherò più avanti» disse Aenea. Frase che avrebbe usato parecchie volte, prima di concludere il racconto.

Dopo Patto-Maui, Aenea e A. Bettik e Theo Bernard erano andati per teleporter su Vettore Rinascimento.

«Vettore Rinascimento!» gridai quasi. Quel pianeta era una fortezza della Pax. Lì, nella nave del console, avevamo corso il rischio di essere abbattuti. Vettore Rinascimento era un pianeta iperindustrializzato, tutto città e fabbriche automatiche e centri della Pax.»

«Vettore Rinascimento» confermò Aenea, con un sorriso.

Non era stato facile, raccontò. Erano stati obbligati a travestire A. Bettik: gli avevano messo una maschera di sintocarne e l’avevano fatto passare per ustionato. Il povero androide era stato molto a disagio, nei sei mesi trascorsi su quel pianeta.

«Che lavoro hai fatto, lì?» domandai. Non riuscivo a immaginare la mia amica e i suoi amici che si nascondevano nell’affollata DaVinci, città di estensione planetaria, in pratica l’intero Vettore Rinascimento.

«Un solo lavoro» rispose Aenea. «Abbiamo lavorato alla chiesa di San Matteo, la nuova cattedrale di DaVinci.»

Rimasi a fissarla per un minuto buono, prima di ritrovare la parola. «Avete lavorato a una cattedrale? Una cattedrale della Pax? Una chiesa cristiana?»

«Sì, certo» rispose con calma Aenea. «Ho faticato a fianco di alcuni dei migliori scalpellini, vetrai, costruttori e artigiani del settore. All’inizio ero apprendista, ma prima della partenza ero diventata assistente del capo progettista che lavorava alla navata.»

Potei solo scuotere la testa. «E hai fatto… hai tenuto circoli di discussione?»

«Sì. Su Vettore Rinascimento vi furono più studenti che su qualsiasi altro pianeta. Migliaia di studenti, prima della conclusione.»

«Sono sorpreso che non ti abbiano tradito.»

«Mi hanno tradito, infatti. Ma non fu uno dei miei studenti. Uno dei vetrai ci denunciò alla guarnigione della Pax. A. Bettik, Theo e io ce la cavammo al pelo.»

«Per teleporter.»

«Sì… portandoci» disse Aenea. Solo molto più tardi capii che in quel momento nella sua voce c’era stata una piccola esitazione, una riserva inespressa.

«E gli altri sono andati via con te?»

«Non con me. Ma centinaia di loro si portarono altrove.»

«Dove?» domandai, confuso.

Aenea sospirò. «Ricordi la nostra discussione, Raul? Quando ho detto che per quelli della Pax io ero un virus? E che avevano ragione loro?»

«Sì.»

«Be’, anche quei miei studenti portano il virus. Avevano posti dove andare. Persone da infettare.»

Continuò l’elenco di pianeti e di lavori. Tre mesi su Patawpha, dove mise a frutto l’esperienza nella costruzione di alberi-casa per erigere ville signorili nei rami intrecciati e nei tronchi che crescevano dalle interminabili paludi.

Quattro mesi standard su Amritsar, dove aveva lavorato nel deserto per costruire case di tende e luoghi di raduno per le bande nomadi di Sikh e di Sufi che vagavano sulle sabbie verdastre di quel pianeta.

«E lì hai conosciuto Rachel» dissi.

«Esatto.»

«Qual è il cognome di Rachel? Non me l’ha detto.»

«Non l’ha mai detto neppure a me» rispose. E continuò il racconto.

Da Amritsar, lei e A. Bettik e le due nuove amiche si erano portati su Groombridge Dyson D. Quel pianeta era stato un fallito tentativo di terraforming dell’Egemonia, abbandonato all’invasione dei ghiacciai di metano e ammoniaca e agli uragani di cristalli di ghiaccio, mentre i coloni, in numero sempre minore, si ritiravano nelle biocupole e nelle baracche dei cantieri orbitali. Ma la sua popolazione, in gran parte ingegneri musulmani del fallito Progetto di reclamazione genetica transafricana, si era testardamente rifiutata di morire durante la Caduta e aveva finito per terraformare Groombridge Dyson D in un pianeta a tundra lapponica con aria respirabile e adattamenti della flora e della fauna dalla Vecchia Terra, compresi lanosi mammut che vagavano nelle terre alte equatoriali. I milioni di ettari di praterie erano l’ideale per i cavalli (cavalli della Vecchia Terra, del tipo scomparso durante le Tribolazioni, prima che il pianeta cadesse in se stesso) e così gli ingegneri genetici avevano preso l’originale ceppo delle navi seminatrici e avevano prodotto cavalli a migliaia, poi a decine di migliaia. Bande nomadi vagavano nelle praterie del continente meridionale e vivevano in una sorta di simbiosi con i grandi branchi di cavalli, mentre i contadini e i cittadini si trasferivano nelle alture pedemontane lungo l’equatore. Sul pianeta c’erano violenti predatori, evoluti e scatenati nei secoli di accelerata e autodiretta sperimentazione ARNista: branchi di mutanti imparentati alle carogne e terrori notturni rintanati in cunicoli, serpenti lunghi trenta metri discendenti da quelli che abitavano il mar d’Erba di Hyperion e tigri delle rocce di Fuji, lupi intelligenti e orsi grigi dal QI accresciuto.

Gli esseri umani possedevano la tecnologia per dare la caccia a quei killer bioadattati e ridurli all’estinzione in un anno o meno, ma i residenti del pianeta avevano scelto una via diversa: i nomadi avrebbero corso i propri rischi, alla pari con i predatori, proteggendo i grandi branchi di cavalli finché l’erba non avesse smesso di crescere e l’acqua di scorrere, mentre gli stanziali di città avrebbero costruito una muraglia, una singola muraglia alla fine lunga più di cinquemila chilometri che separasse le regioni più selvagge delle terre alte dalle savane popolate di cavalli e dalle foreste di cicladi in evoluzione a sud. E la muraglia doveva essere qualcosa di più di una muraglia, doveva diventare la grande città lineare di Groombridge Dyson D, alta trenta metri come minimo, con bastioni risplendenti di moschee e di minareti, con il camminamento superiore tanto largo da permettere almeno il passaggio di tre cocchi quasi a contatto di ruota.

I coloni erano troppo pochi e troppo impegnati in altri progetti per lavorare a tempo pieno alla muraglia, ma avevano programmato dei robot e ricuperato gli androidi nelle cripte delle navi seminatrici, m modo che terminassero il lavoro. Aenea e i suoi amici avevano preso parte a quel progetto, lavorando per sei mesi standard, mentre la muraglia prendeva forma e iniziava l’implacabile marcia lungo la base delle terre alte e il limitare delle praterie.

«A. Bettik trovò lì due dei suoi fratelli» disse piano Aenea.

«Oddio» mormorai. Me n’ero quasi dimenticato. Alcuni anni prima, su Sol Draconis Septem, seduti davanti al tepore di un termocubo nello studio tappezzato di libri di padre Glauco, in un grattacielo a sua volta imprigionato nel ghiacciaio eterno dell’atmosfera congelata del pianeta, A. Bettik aveva accennato a una delle ragioni per cui partecipava a quell’odissea con la bambina Aenea e con me: si augurava, contro ogni logica, di trovare i suoi quattro consanguinei, tre fratelli e una sorella. Erano stati separati dopo il periodo di addestramento, quando erano ancora bambini, se si può usare il termine "bambini" per indicare i primi anni di vita accelerata degli androidi.