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«Raul!» Aenea completò di corsa gli ultimi passi che ci separavano, si fermò davanti a me, mi prese per le braccia.

Per un istante pensai che mi avrebbe baciato sulla bocca come aveva fatto, come la sedicenne Aenea aveva fatto, negli ultimi minuti trascorsi insieme sulla Vecchia Terra. Invece alzò la mano e me la posò sul viso, facendo correre le dita lungo la linea della guancia, fino al mento. Nei suoi occhi c’era una luce, di che cosa? Non divertimento. Di vitalità, forse. Di felicità, mi augurai.

Mi sentii la lingua incollata. Aprii bocca, alzai la destra come per toccarle la guancia, la lasciai cadere.

«Raul, maledizione, è davvero bello vederti!» Mi tolse dal viso la mano e mi abbracciò con una intensità che rasentava la violenza.

«È bello vederti, ragazzina.» Le diedi colpetti sulla schiena, sentendo sotto il palmo la ruvida stoffa della giacca.

Aenea arretrò di un passo, ora con un ampio sorriso, e mi tenne per gli avambracci. «Il viaggio per riprendere la nave è stato terribile? Racconta!»

«Cinque anni!» sbottai. «Perché non mi hai detto…»

«Te lo dissi. Te lo gridai.»

«Quando? Ad Hannibal? Mentre ero…»

«Sì. Allora gridai: "Ti amo". Ricordi?»

«Questo lo ricordo, ma se sapevi… cinque anni, voglio dire…»

Parlavamo tutt’e due insieme, quasi farfugliando. Mi ritrovai a cercare di raccontarle tutto dei teleporter, del calcolo renale su Virus-Gray-Balianus B, degli Spettroelica di Amoiete, del pianeta di nuvole, della creatura seppia/calamaro, e intanto facevo domande e riprendevo a farfugliare prima che lei potesse rispondere.

Aenea continuò a sorridere. «Sei sempre lo stesso, Raul. Sempre lo stesso. Ma, diavolo, perché saresti dovuto cambiare? Per te si è trattato solo di… un paio di settimane di viaggio e un freddo sonno nella nave.»

Lo stordimento di felicità fu inondato dalla collera. «Maledizione, Aenea» dissi, serio. «Dovevi parlarmi del debito temporale! E forse anche del passaggio in un pianeta senza fiume né terreno solido. Potevo morire.»

Aenea annuiva. «Ma non lo sapevo con certezza, Raul! Niente certezza, solo le solite… possibilità. Per questo A. Bettik e io abbiamo aggiunto al kayak la paravela.» Rise di nuovo. «Direi che ha funzionato.»

«Ma sapevi che sarebbe stata una lunga separazione. Anni, per te.» Non la formulai come domanda.

«Sì.»

Aprii bocca, sentii la collera svanire con la stessa rapidità con cui era giunta. Presi per le braccia Aenea. «È bello rivederti, ragazzina.»

Lei mi abbracciò di nuovo, stavolta mi baciò sulla guancia come faceva da bambina quando la deliziavo con qualche battuta o commento. «Vieni» disse. «Il turno pomeridiano è terminato. Ti mostrerò la nostra piattaforma e ti presenterò ad alcune persone.»

"La nostra piattaforma?" ripetei tra me. Seguii Aenea giù per scalette e ponti che non avevo notato quando ero giunto con Rachel.

«A te è andato tutto bene, Aenea? Voglio dire… è tutto a posto?»

«Sì.» Mi guardò da sopra la spalla e mi sorrise di nuovo. «Va tutto bene, Raul.» Attraversammo una terrazza sul fianco della più alta di tre pagode disposte l’una sull’altra. Mentre percorrevamo la stretta terrazza, la piattaforma dondolò un poco; e quando mettemmo piede nell’angusto passaggio tra le pagode, l’intera struttura vibrò. Notai che alcune persone lasciavano la pagoda più a ovest e tornavano per lo stretto sentiero sulla cornice lungo la parete dello strapiombo.

«Questa parte sembra traballante, ma è abbastanza robusta» disse Aenea, notando la mia apprensione. «Travi di robusto pino bonsai, conficcate in fori scavati nella roccia. Sostengono l’intera infrastnittura.»

«Marciranno di sicuro» dissi, seguendola su un breve ponte sospeso. Dondolammo nel vento.

«Marciscono, infatti» disse Aenea. «Negli ottocento e passi anni di esistenza del tempio, sono stati sostituiti parecchie volte. Nessuno sa con esattezza quante. Le loro documentazioni sono più traballanti dei pavimenti.»

«E sei stata assunta per completare questo posto?» domandai. Eravamo giunti in una terrazza di legno color vino. All’estremità, una scala a pioli portava a un’altra piattaforma e a un ponte ancora più stretto che da lì proseguiva.

«Sì. Sono architetto e capocantiere, più o meno. Dopo il mio arrivo, ho sovrinteso alla costruzione di un tempio taoista vicino a Potala e il Dalai Lama ha pensato che avrei potuto terminare i lavori del Tempio a mezz’aria. Nel corso degli ultimi decenni l’impresa ha frustrato diversi sedicenti restauratori.»

«Dopo il tuo arrivo» ripetei. Intanto eravamo giunti su un’alta piattaforma al centro della costruzione. Era circondata da magnifiche ringhiere intagliate e conteneva due piccole pagode appollaiate proprio sul bordo. Aenea si fermò alla porta della prima.

«Un tempio?» domandai.

«La mia abitazione» rispose con un sorriso, indicando l’interno. Vi lanciai un’occhiata. La stanza era quadrata, solo tre metri per tre, con pavimento di legno lucido e due piccoli tatami. La cosa più singolare era la parete di fondo, che semplicemente non c’era. I paraventi shoji della stanza erano stati chiusi e la parete di fondo terminava all’aria aperta. Un sonnambulo sarebbe finito nell’oblio, lì dentro. La brezza che risaliva la facciata dell’abisso faceva stormire le fronde di tre rami tipo salice posti in un magnifico vaso giallo mostarda su una bassa pedana di legno accostata alla parete ovest. Era l’unico ornamento della stanza.

«Negli edifici ci togliamo le scarpe, esclusi i corridoi di transito che hai già percorso nel venire qui» disse Aenea. Mi guidò alla seconda pagoda. Era quasi identica alla prima, a parte i paraventi shoji chiusi e un futon sul pavimento, lì vicino. «Roba di A. Bettik» disse Aenea, indicando un armadietto dipinto di rosso accanto al futon. «Ti abbiamo sistemato qui. Entra.» Si tolse gli stivali, andò ai tatami, aprì i paraventi shoji e si sedette a gambe incrociate.

Mi tolsi gli stivali, deposi contro la parete sud lo zaino e mi andai a sedere accanto a Aenea.

«Bene» disse lei, prendendomi ancora per le braccia. «Accidenti.»

Per un minuto non trovai parole. Mi domandai se l’altitudine o l’aria ricca d’ossigeno mi rendessero così sensibile all’emozione. Mi concentrai sulle file di persone in vivaci chuba che lasciavano il tempio e percorrevano verso ovest le strette cornici e i ponti lungo la parete dello strapiombo. Proprio davanti alla porta spalancata della pagoda c’era il lucente massiccio dell’Heng Shan, con i suoi campi di ghiaccio che brillavano nella luce del tardo pomeriggio. «Oddio» mormorai. «Questo posto è veramente bello, ragazzina.»

«Sì. E anche micidiale, se non si sta attenti. Domani A. Bettik e io ti condurremo su per la parete e ti faremo un corso d’aggiornamento sulle attrezzature da scalata e sul protocollo.»

«Un corso per principianti, vorrai dire» la corressi. Non riuscivo a smettere di guardare il suo viso, i suoi occhi. Avevo paura che, se avessi toccato di nuovo la sua pelle, una scarica elettrica visibile sarebbe scoccata fra noi due. Ricordai lo shock elettrico che mi colpiva ogni volta che la sfioravo, quando lei era bambina. Trassi un respiro. «E va bene» dissi. «Quando sei giunta qui, il Dalai Lama… qualsiasi cosa sia… ha detto che potevi lavorare qui al tempio. Ma quando sei arrivata? E come? Quando hai conosciuto Rachel e Theo? Chi altri conosci bene, qui? Cos’è accaduto dopo che ci siamo salutati ad Hannibal? Cos’è accaduto a tutti gli altri a Taliesin? I soldati della Pax ti hanno dato la caccia? Dove hai imparato tutta quella roba di architettura? Parli ancora con i Leoni e Tigri e Orsi? Come hai fatto a…»

Aenea alzò la mano. Rideva di cuore. «Una cosa per volta, Raul. Anch’io devo sapere tutto del tuo viaggio.»

La guardai negli occhi. «Ho sognato che discutevamo. Mi hai parlato dei quattro passi… imparare il linguaggio dei morti… imparare…»