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«Il linguaggio dei vivi» terminò lei per me. «Sì, ho fatto anch’io quel sogno.»

Di sicuro inarcai le sopracciglia.

Aenea sorrise e mise le mani sulle mie: erano più grandi, coprivano i miei pugni. Ricordai quando tutt’e due le sue sarebbero scomparse in una delle mie. «Ho fatto davvero quel sogno, Raul. Ho sognato che soffrivi molto… alla schiena…»

«Calcolo renale» dissi, trasalendo al ricordo.

«Sì. Dimostra, immagino, che siamo ancora amici, se riusciamo a fare lo stesso sogno anche separati da anni luce.»

«Anni luce» ripetei. «Già, Aenea, come hai fatto ad attraversarli? Come sei giunta qui? In quali altri posti sei stata?»

Aenea annuì e iniziò a raccontare. Il vento che entrava dalla parete di paraventi ripiegati le arruffò i capelli. Mentre lei parlava, la luce della sera divenne più ricca e più alta sulla grande montagna verso nord e sulla facciata dell’abisso a est e a ovest.

Aenea era stata l’ultima a lasciare Taliesin West, ma solo quattro giorni dopo la mia partenza in kayak sul Mississippi. Gli altri apprendisti erano partiti varcando altri teleporter: la navetta aveva consumato le ultime scorte di energia e li aveva trasportati alle varie arcate, nei pressi del Golden Gate, sul bordo del Grand Canyon, in cima alle facce di pietra del monte Rushmore, sotto le travi arrugginite delle incastellature di lancio nel parco storico spazioporto Kennedy, sparse a quanto pareva su tutto l’emisfero occidentale della Vecchia Terra. Il teleporter usato da Aenea si trovava in una casa di adobe di un pueblo a nord della città abbandonata di Santa Fe. A. Bettik aveva varcato con lei quel teleporter. Provai una punta di gelosia per questo, ma rimasi in silenzio.

Il primo teleporter aveva portato Aenea su un pianeta ad alta gravità, Ixion. Lì la Pax era presente, ma concentrata soprattutto nell’emisfero opposto. Ixion non si era mai ripreso appieno dalla Caduta e l’alto pianoro coperto di giungla dove erano emersi Aenea e A. Bettik era un labirinto di rovine invase dalle erbacce, popolate soprattutto da belligeranti tribù di neomarxisti e di fautori della rinascita dei nativi americani, mistura volatile ulteriormente destabilizzata da bande di fuorilegge e di ARNisti erranti che tentavano di riportare in vita tutte le specie classificate di dinosauri della Vecchia Terra.

Aenea ne fece un racconto divertente: il trucco di nascondere la pelle azzurra di A. Bettik e la sua evidente natura di androide mediante grandi quantità di pitture decorative facciali usate dagli indigeni, l’audacia di una sedicenne che chiedeva denaro (nel caso specifico, cibo e pellicce in baratto) per capeggiare i tentativi di ricostruzione nelle vecchie città ixiane di Canbar, Iliumut e Maoville. Ma tutto era andato liscio. Aenea non solo aveva riprogettato e ricostruito tre centri della vecchia città e innumerevoli abitazioni più piccole, ma aveva iniziato una serie di "circoli di discussione" che richiamavano ascoltatori da una decina di tribù in guerra.

Qui Aenea non desiderava scendere nei particolari, l’avevo capito, ma io volli sapere che cosa riguardavano i "circoli di discussione".

«Varie cose» disse lei. «Loro sollevavano un argomento, io suggerivo alcune cose su cui riflettere e tutti ne parlavano.»

«Hai insegnato?» domandai, pensando alla profezia secondo cui la figlia del cìbrido John Keats sarebbe stata Colei che insegna.

«In senso socratico, direi.»

«Cosa diavolo è… ah, già.» Ricordai l’opera di Piatone alla quale Aenea mi aveva indirizzato nella biblioteca di Taliesin. Il maestro di Piatone, Socrate, insegnava ponendo domande, estraeva verità che le persone già avevano in sé. La ritenevo una tecnica dai risultati assai dubbi, nel migliore dei casi.

Aenea proseguì il racconto. Alcuni partecipanti al suo gruppo di discussione erano divenuti ascoltatori devoti, tornavano ogni sera e la seguivano quando lei passava da una città in rovina all’altra.

«Erano diventati i tuoi discepoli» commentai.

Aenea si accigliò. «Quella parola non mi piace molto, Raul.»

Incrociai le braccia e guardai fuori il bagliore rossastro delle vette che illuminava la parte superiore delle nuvole molti chilometri più in basso e la vivida luce della sera sul picco settentrionale. «Potrà anche non piacerti, ragazzina, ma a me pare la parola giusta. I discepoli seguono la loro maestra dovunque vada e cercano di spigolare da lei un ultimo frammento di conoscenza.»

«Gli studenti seguono la maestra.»

«E va bene» cedetti. Non volevo interrompere il racconto per una discussione. «Continua.»

Su Ixion non c’era più molto da dire, riprese Aenea. Lei e A. Bettik erano rimasti su quel pianeta quasi un anno locale, pari a cinque mesi standard. Per gli edifici aveva usato in gran parte blocchi di pietra e si era ispirata allo stile classico antico, quasi grecheggiante.

«E la Pax?» domandai. «Non è venuto nessuno a ficcare il naso?»

«Alcuni missionari partecipavano alle discussioni. Uno di loro, un certo padre Clifford, divenne buon amico di A. Bettik.»

«Non ti ha denunciato? Non credo che abbiano smesso di darci la caccia.»

«Sono sicura che padre Clifford non mi denunciò. Ma a un certo punto degli agenti della Pax cominciarono a cercarci nell’emisfero occidentale dove lavoravamo. Le tribù ci tennero nascosti per un altro mese. Padre Clifford veniva alle discussioni serali anche quando gli skimmer sorvolavano avanti e indietro la giungla alla nostra ricerca.»

«Cosa accadde?» Mi sentivo come un bambino di due anni che fa domande solo perché l’altro continui a parlare. Ero stato lontano da Aenea solo alcuni mesi, compreso il viaggio in crio-fuga infestato di sogni, ma avevo dimenticato quanto mi piaceva il suono della voce della mia giovane amica.

«Niente, in realtà. Terminai l’ultimo lavoro, un vecchio anfiteatro per recite e riunioni cittadine, neanche a farlo apposta, e me ne andai. Anche alcuni… studenti… se ne andarono.»

Rimasi sorpreso. «Con te?» domandai. Rachel aveva detto di avere conosciuto Aenea sul pianeta Amritsar e di avere viaggiato con lei. Forse Theo era giunta da Ixion.

«No, nessuno è venuto con me da Ixion» disse Aenea, piano. «I miei studenti avevano altre destinazioni. Cose da insegnare ad altri.»

La guardai un momento. «Vuoi dire che Leoni e Tigri e Orsi ora permettono anche ad altri di usare i teleporter? O che tutti i vecchi portali si riaprono?»

«No» rispose Aenea, non so a quale delle due domande. «No, i teleporter sono morti come sempre. Tranne… be’… alcuni casi speciali.»

Anche stavolta evitai di chiedere maggiori particolari. Aenea continuò il racconto.

Dopo Ixion, si era teleportata su Patto-Maui.

«Il pianeta di Siri!» esclamai, ricordando la voce di nonna che mi insegnava i Canti di Hyperion. Patto-Maui era stato la scena di uno dei racconti dei pellegrini.

Aenea annuì e continuò. Già ai tempi della Rete, Patto-Maui era stato devastato dalla rivoluzione e dagli attacchi dell’Egemonia, si era ripreso durante l’interregno dopo la Caduta ed era stato nuovamente colonizzato nel periodo di espansione della Pax, senza l’aiuto degli indigeni che, nella migliore tradizione di Siri, avevano combattuto per le loro isole mobili e a fianco dei delfini, finché la Flotta della Pax e le guardie svizzere non li avevano messi sotto i piedi. Ora Patto-Maui veniva cristianizzato a più non posso: i residenti dell’unico grande continente, l’Arcipelago equatoriale, e le migliaia di isole mobili migranti erano inviati in "accademie cristiane" per la rieducazione.

Ma Aenea e A. Bettik erano usciti in un’isola mobile ancora in mano ai ribelli, gruppi di neopagani detti siriti che salpavano di notte, si nascondevano di giorno fra gli arcipelaghi viaggianti di isole disabitate e combattevano contro la Pax a ogni occasione.

«Cos’hai costruito?» domandai. Mi pareva di ricordare, dai Canti, che sulle isole mobili c’era poco, a parte alberi-casa sotto gli alberi-vela.