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Rachel mi diede un chuba di lana da portare sopra il giubbotto termico. Notai l’imbracatura di nylon che portava sopra giacca e calzoni, gli attrezzi da scalata che pendevano dalle cinghie e chiesi spiegazioni.

«Aenea ha un’imbracatura pronta per te, su al tempio» disse Rachel, con un acciottolio di attrezzi nella reticella. «Questa è la più avanzata tecnologia del pianeta. I fabbri a Potala chiedono e ottengono l’equivalente di un riscatto da re per questa roba: ramponi, carrucole per i cavi, piccozze pieghevoli e martelli da ghiaccio, zeppe, staffe, moschettoni, grappette, chiodi e quant’altro ti viene in mente.»

«Ne avrò bisogno?» domandai, dubbioso. Nella Guardia nazionale avevo appreso alcune tecniche di base per scalare i ghiacciai (calarsi a corda doppia, sfruttare i crepacci, questo genere di cose) e quando lavoravo con Avrol Hume, nel Becco, avevo fatto alcune arrampicate in cordata nelle cave di pietra, ma non ero sicuro di cavarmela nella scalata di vere montagne. Non mi piacevano le altezze.

«Ne avrai bisogno, ma ti abituerai in fretta» mi garantì Rachel e si avviò, saltando sulle pietre per attraversare il corso d’acqua e poi risalendo a passo svelto, con leggerezza, il sentiero che portava all’orlo dello strapiombo. Gli attrezzi nell’imbracatura tintinnavano piano, come campanelle d’acciaio o campanacci intorno al collo di capre di montagna.

La marcia di dieci chilometri a sud lungo la parete a picco fu abbastanza facile, una volta che mi abituai alla stretta cornice, col vertiginoso precipizio alla nostra destra, il vivido riflesso di quella incredibile montagna da nord e dal ribollire di nubi dal basso, e l’inebriante impulso di energia dell’aria ricca di ossigeno.

«Sì» disse Rachel, quando accennai all’aria «l’atmosfera ricca di ossigeno sarebbe un guaio, se ci fossero foreste o savane facilmente infiammabili. Dovresti vedere le tempeste di fulmini durante il monsone. Ma la foresta bonsai giù nella forra e le foreste di felci sul lato piovoso di Phari sono in pratica tutto ciò che abbiamo in termini di materiali combustibili. E il legno bonsai che usiamo nelle costruzioni è quasi troppo denso per ardere.»

Per un poco camminammo in fila e in silenzio. Concentravo l’attenzione sulla cornice. Avevamo appena superato uno stretto angolo che mi obbligò a chinare la testa per non urtare la sporgenza rocciosa, quando la cornice si allargò, la visuale si aprì, ed ecco il Hsuan-k’ung Ssu, il Tempio a mezz’aria.

Anche da quella distanza, un po’ più in basso e di lato, il tempio pareva magicamente sospeso nell’aria, sul vuoto. Alcuni edifici, fra i più bassi e più antichi, avevano basi di pietra o di mattoni, ma quasi tutti gli altri erano costruiti sul vuoto. Quegli edifici in stile pagoda erano riparati dalla grande sporgenza rocciosa una ottantina di metri sopra gli edifici principali, ma scale a pioli e piattaforme zigzagavano verso l’alto fin quasi a toccare la faccia inferiore della sporgenza.

Ci trovammo fra la gente. I variopinti chuba e le onnipresenti imbracature da scalata non erano qui il solo comune denominatore: i visi che mi scrutavano con educata curiosità per la maggior parte parevano di ceppo asiatico della Vecchia Terra; le persone erano relativamente basse di statura, per un pianeta di gravità quasi standard; facevano un cenno di saluto e si scostavano rispettosamente davanti a Rachel che mi guidava tra la folla, su per le scalette, lungo corridoi interni profumati di incenso e di legno di sandalo, sotto verande e su ponti sospesi e scalinate di squisita fattura. In breve ci trovammo nei piani superiori del tempio, dove la costruzione procedeva a passo spedito. Le figurette viste prima col binocolo adesso erano persone viventi che grugnivano sotto pesanti ceste di pietre, individui che puzzavano di sudore e di lavoro onesto. La silenziosa efficienza che avevo osservato dalla loggia della nave ora divenne una rumorosa mistura di martellate, del sonoro ticchettio di scalpelli, dell’eco di picconi, del frastuono di operai che vociavano e facevano gesti nel controllato caos comune a ogni cantiere.

Dopo varie scalinate e tre lunghe scale a pioli che arrivavano alla piattaforma più alta, mi fermai a prendere fiato prima di affrontare l’ultima scaletta. Aria ricca di ossigeno o no, quella salita era una dura fatica. Notai che Rachel mi guardava con l’equanimità che potrebbe essere facilmente scambiata per indifferenza.

Alzai gli occhi e vidi una giovane donna scavalcare il bordo della piattaforma più alta e scendere con grazia la scaletta. Per un brevissimo istante mi sentii il cuore balzare in gola — Aenea! — ma poi vidi come la donna si muoveva, vidi i capelli corti sulla nuca e seppi che non era la mia amica.

Mi scostai con Rachel dalla base della scaletta, mentre la donna saltava gli ultimi pioli. Era grossa e solida, alta come me, con lineamenti forti e occhi di un viola sorprendente. Pareva sui cinquanta standard, era molto abbronzata e in ottime condizioni fisiche; dalle piccole rughe chiare agli angoli degli occhi e della bocca si sarebbe detto che anche a lei piaceva ridere spesso.

«Raul Endymion» disse, porgendomi la mano «sono Theo Bernard. Aiuto a costruire cose.»

Risposi con un cenno. La sua stretta di mano era decisa come quella di Rachel.

«Aenea ha quasi terminato lassù» disse Theo Bernard, indicando la scaletta.

Lanciai un’occhiata a Rachel.

«Tu continua» mi disse lei. «Noi abbiamo da fare.»

Salii, una mano dopo l’altra. Probabilmente c’erano sessanta pioli nella scaletta di bambù e nel salire mi resi conto che la piattaforma da cui ero partito era molto piccola, se si cadeva, mentre l’abisso poco più in là non aveva fondo.

Raggiunta la piattaforma superiore, vidi le rozze baracche da cantiere e le aree di pietra scalpellata dove avrebbero costruito l’ultima ala del tempio. Ero consapevole delle incalcolabili tonnellate di pietra che iniziavano a soli dieci metri dalla mia testa: la sporgenza rocciosa formava un angolo verso l’alto e all’infuori, come un soffitto di granito. Piccoli uccelli dalla coda forcuta saettavano e planavano fra le crepe e le fessure della sporgenza.

Poi rivolsi tutta l’attenzione alla figura che emergeva dalla più grande delle due baracche.

Era Aenea. Gli occhi arditi e scuri, il sorriso non impacciato, gli zigomi sporgenti, le mani delicate, i capelli biondocastani tagliati con noncuranza e ora agitati dal forte vento che soffiava lungo la parete dello strapiombo. Non era molto più alta dell’ultima volta, quanto basta per baciarla in fronte, ma era cambiata davvero.

Ansimai. Avevo visto persone crescere e maturare, naturalmente, ma erano i miei amici, quando anch’io crescevo e maturavo. E non avendo avuto figli l’attenta osservazione di qualcuno che maturava era avvenuta solo durante i quattro anni e qualche mese della mia amicizia con quella ragazzina. Per molti aspetti, capii, Aenea aveva lo stesso aspetto del giorno del suo sedicesimo compleanno, cinque dei suoi anni fa, a parte la scomparsa totale della morbidezza infantile, zigomi più accentuati e lineamenti più fermi, fianchi più larghi e seni un po’ più sviluppati. Portava calzoni di saia, stivali alti, una camicetta verde che ricordavo dai tempi di Taliesin West e una giacca cachi che si gonfiava al vento. Vedevo che braccia e gambe le si erano irrobustite, con una muscolatura più pronunciata di quella che ricordavo sulla Vecchia Terra… ma non erano i soli cambiamenti.

Tutto era cambiato, in lei. La bambina che conoscevo era svanita. Al suo posto c’era una donna; una donna strana, che camminava in fretta verso di me sulla scabra piattaforma. Non si trattava solo di lineamenti più decisi e forse di carne un po’ più soda sul fisico ancora snello: si trattava di solidità. Di portamento. Aenea era sempre stata la persona più viva, animata e completa che avessi mai conosciuto, anche da bambina. Ora che quella bambina era svanita, o almeno sommersa nella donna adulta, vedevo la sua solidità dentro quell’aura animata.