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«Naturalmente l’evoluzione delle IA non seguì questa via. In un certo senso, le IA cominciarono furtivamente a esistere mentre noi esseri umani guardavamo dall’altra parte.

«Immaginate adesso com’era la Vecchia Terra, prima che l’uomo avesse colonie su altri pianeti. Niente motore Hawking. Niente volo spaziale. Tutte le nostre uova erano davvero in un solo paniere e quel paniere era l’amabile pianeta bianco e azzurro, la Vecchia Terra.

«Alla fine del XX secolo dell’era cristiana, quel piccolo pianeta aveva una rozza sfera dati. Telecomunicazioni planetarie di base si erano sviluppate in un plurisistema decentralizzato di vecchi computer a base silicea che non richiedevano organizzazione né gerarchia, che non richiedevano nient’altro che il comune protocollo di comunicazione. Fu allora inevitabile la creazione di una mente-alveare per trattare la memoria distribuita.

«I primi antenati diretti delle attuali personalità del Nucleo non erano progetti per creare l’intelligenza artificiale, ma tentativi connessi alla simulazione della vita artificiale. Nel 1940, il bisnonno del TecnoNucleo, un matematico, John von Neumann, aveva fatto tutte le prove di autoreplicazione artificiale. Appena i primi computer a base silicea divennero abbastanza piccoli perché gli individui ci giocassero, alcuni dilettanti curiosi cominciarono a praticare biologia sintetica nell’ambito dei cicli CPU di quelle macchine. L’ipervita — che si autoriproduceva, che immagazzinava dati, che interagiva, che metabolizzava, che si evolveva — nacque negli anni 1960. Nell’ultimo decennio di quel secolo fuggì dalle sacche di marea delle macchine individuali e si trasferì nell’embrionale sfera dati planetaria detta Internet o la rete.

«Le prime IA erano stupide come un grumo di terra. Ma forse una metafora migliore sarebbe: stupide come la prima vita cellulare che fu nella terra. Alcune delle prime ipercreature galleggianti nel caldo ambiente della sfera dati, anch’esso in evoluzione, erano organismi a 80 byte inseriti in un blocco di RAM in un computer virtuale, ossia un computer simulato da un computer. Uno dei primi esseri umani a liberare nell’oceano della sfera dati simili creature fu un certo Tom Ray: non era un esperto di IA né un programmatore di computer né un cyberpuke (che a quel tempo era definito hacker) ma un biologo, entomologo, botanico e appassionato di bird-watching, uno che aveva speso anni a raccogliere formiche nelle giungle per uno scienziato pre-Egira di nome E.O. Wilson. Osservando le formiche, Tom Ray si interessò all’evoluzione e si domandò se non sarebbe riuscito non solo a simulare l’evoluzione in uno dei primi computer, ma anche a crearvi una vera evoluzione. Nessuno dei cyberpuke con cui parlò era interessato all’idea, così Tom Ray imparò da solo a programmare computer. I cyberpuke dissero che evoluzioni e mutazioni di sequenze di codici accadevano di continuo nei computer: i classici bugs che rovinavano i programmi. Se si fossero evolute in qualcosa d’altro, dicevano, quelle sequenze di codici sarebbero state quasi sicuramente non funzionali e non vitali, come sono molte mutazioni, e si sarebbero limitate a rovinare le operazioni del software dei computer. Allora Tom Ray creò un computer virtuale, un computer simulato all’interno del suo vero computer, per le sue creazioni di sequenze di codici. E poi creò una vera creatura a sequenza di codice a 80 byte che si poteva riprodurre, morire ed evolversi nel suo computer-nel-computer.

«La 80 byte si copiò in altri 80 byte. Quelle creature-cellula proto-IA a 80 byte avrebbero rapidamente riempito il loro universo virtuale, come schiuma di stagno sopra schiuma di stagno in una paradisiaca Terra primigenia; ma Tom Ray diede a ogni 80 byte un indicatore di durata, in altre parole diede loro un’età e programmò un boia interno che chiamò Mietitore. Il Mietitore vagò nell’universo virtuale e mieté vecchie creature a 80 byte e mutanti non vitali.

«Ma l’evoluzione, com’è logico che sia, cercò di superare in intelligenza il Mietitore. Una creatura mutante a 79 byte dimostrò non solo di essere vitale, ma in breve si riprodusse più rapidamente e distanziò le 80 byte. Le ipervite, antenati delle nostre IA del Nucleo, erano appena nate, ma già ottimizzavano i propri genomi. Presto si sviluppò un organismo a 45 byte e quasi eliminò le precedenti forme di vita artificiale. Come loro creatore, Tom Ray trovò bizzarra la cosa. In 45 byte non era possibile includere codici sufficienti a consentire la riproduzione. Inoltre i 45 byte morivano con la scomparsa degli 80 byte. Tom Ray eseguì l’autopsia di una creatura a 45 byte.

«Risultò che tutti i 45 byte erano parassiti. Per copiare se stessi, prendevano in prestito dagli 80 byte l’indispensabile codice riproduttivo. I 79 byte, risultò, erano immuni ai parassiti 45 byte. Mentre gli 80 byte e i 45 byte si muovevano verso l’estinzione nella loro coevolutiva spirale decrescente, comparve un mutante dei 45 byte. Era un parassita a 51 byte, in grado di predare sul vitale 79 byte. E così andò.

«Espongo tutto questo perché è importante capire che fin dalla sua primissima comparsa, la vita e intelligenza artificiale creata dall’uomo era parassita. Anzi, più che parassita: iperparassita. Ogni nuova mutazione portava a parassiti che potevano predare su parassiti precedenti. Nel giro di qualche miliardo di generazioni, ossia cicli CPU, quella vita artificiale era divenuta iper-iper-iperparassita. Nel giro di qualche mese standard della sua creazione dell’ipervita, Tom Ray scoprì creature a 22 byte che prosperavano nel suo ambiente virtuale, creature così algoritmicamente efficienti che i programmatori umani, sfidati da Tom Ray, non riuscirono a creare niente che si avvicinasse a quelle più di una versione a 31 byte. Solo alcuni mesi dopo la loro creazione, le creature iperviventi avevano sviluppato una efficienza che i loro creatori non riuscivano a uguagliare!

«Agli inizi del XXI secolo c’era una fiorente biosfera di vita artificiale sulla Vecchia Terra, sia nelle sfere dati in rapida evoluzione sia nella macrosfera della vita umana. Anche se i successi del calcolo a base DNA, memorie a bolla, elaborazione parallela a fronte d’onda fisso e iperinterconnessione erano appena esplorati, i progettisti umani avevano creato entità a base silicea di notevole ingegnosità. E le avevano create a miliardi. I microchip erano dovunque, dalle sedie alle scatole di fagioli sugli scaffali dei mercati, dalle autovetture alle protesi del corpo umano. Le macchine erano diventate sempre più piccole, al punto che l’abitazione umana media o l’ufficio erano pieni di decine di migliaia di microchip. La sedia riconosceva la propria operatrice appena quella si sedeva e richiamava il file a cui lavorava sul rozzo computer a base silicea, parlava a un altro chip in una caffettiera in modo da preparare il caffè, abilitava la griglia di comunicazione a trattare chiamate e fax e la rozza posta elettronica in arrivo affinché l’operatrice non fosse disturbata, interagiva con il computer principale dell’abitazione o dell’ufficio per rendere ottimale la temperatura e così via. Nei grandi magazzini, microchip nelle scatole di fagioli sugli scaffali notavano il proprio prezzo e le variazioni di prezzo, ordinavano altre scatole quando diminuivano, annotavano le abitudini d’acquisto dei clienti e interagivano con il negozio e gli altri prodotti ivi contenuti. Questa rete d’interazione divenne complessa e indaffarata come lo strato superficiale di schiuma e bollicine e spuma della zuppa organica negli oceani primigenii della Vecchia Terra.

«Nell’arco di quaranf anni dalla cellula artificiale a 80 byte di Tom Ray, l’uomo era abituato a parlare e comunque interagire con innumerevoli forme di vita artificiale, nelle autovetture, in ufficio, in ascensore, perfino nel proprio corpo, man mano che monitor medici e protoderivazioni si muovevano verso la vera nanotecnologia.