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— Come il dottor Johnson, anche lei ha dimostrato la realtà delle cose — dico. — Non è stim-sim, né sogno. O, per meglio dire, non più di quanto il resto della nostra vita sia sogno.

— Perché ci hanno portati qui? — domanda l'aiutante del PFE, con un'occhiata al cielo, come se gli dèi stessi siano in ascolto appena al di là delle barriere color pastello delle nuvole della sera. — Cosa vogliono?

"Vogliono che io muoia" penso; capisco quanto sia vera la risposta, con una sorpresa simile a un pugno in pieno petto. Respiro lentamente per evitare un attacco di tosse, perché sento il catarro ribollirmi in gola. "Vogliono che io muoia e che lei stia a guardare."

La giumenta riprende la lunga tirata, gira a destra nella viuzza seguente, poi di nuovo a destra in un viale ampio e pieno di ombre e di echi del nostro passaggio; infine, si ferma all'inizio di una grande scalinata.

— Siamo arrivati — dico, scendendo a fatica dalla carrozza. Ho crampi alle gambe, dolore al petto, natiche indolenzite. Nella mente mi passa l'inizio di un'ode satirica sui piaceri dei viaggi.

Hunt scende a terra, rigido quanto me; si ferma in cima alla maestosa scalinata divisa in due ali, incrocia le braccia, la fissa con odio, come se fosse una trappola o un'illusione. — Che posto è questo, esattamente, signor Severn?

Indico la piazza ai piedi della scalinata. — Piazza di Spagna — dico. A un tratto trovo strano che Hunt mi chiami Severn. Questo nome ha smesso di essere il mio quando abbiamo varcato la Porta Laterana. O, meglio, il mio vero nome a un tratto è tornato mio.

— Prima che trascorrano molti anni — dico — questi saranno chiamati gli Scalini Spagnoli. — Mi siedo sui gradini dell'ala di destra. Una vertigine improvvisa mi fa barcollare; Hunt si affretta a sorreggermi per il braccio.

— Non può camminare — dice. — Sta troppo male.

Indico un edificio vecchio e macchiato, che forma un muro rispetto all'ala opposta dell'ampia scala e fronteggia la piazza. — Non è distante, Hunt. Ecco la nostra destinazione.

L'aiutante di Gladstone guarda, corrucciato, l'edificio. — E cosa sarebbe? Perché dovremmo andarci? Cosa andiamo a farci?

Non posso fare a meno di sorridere al suo inconsapevole uso della rima, lui che è il meno poetico degli uomini. All'improvviso immagino di stare seduto per lunghe notti nel guscio buio di un edificio e insegnargli come migliorare una simile tecnica con cesure maschili o femminili, o le gioie di alternare il giambo con il pirricchio non accentato, o l'indulgenza verso se stessi del frequente spondeo.

Tossisco, continuo a tossire, non la smetto finché il sangue non mi schizza il palmo e la camicia.

Hunt mi aiuta a scendere gli scalini, ad attraversare la piazza dove la fontana a forma di nave del Bernini gorgoglia nel crepuscolo, e poi, seguendo le mie indicazioni, mi guida al rettangolo nero del vano della porta… il n. 26 di Piazza di Spagna. Senza volerlo, penso alla Divina Commedia di Dante; mi pare quasi di vedere, scolpite sopra il freddo architrave, le parole: Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate.

Sol Weintraub rimase davanti all'ingresso della Sfinge e agitò il pugno contro l'universo intero, mentre la notte cadeva e le Tombe brillavano del fulgore dovuto all'apertura e sua figlia non tornava.

Non tornava.

Lo Shrike l'aveva presa, aveva tenuto nel palmo di acciaio il corpicino appena nato e si era ritirato nello splendore che spingeva via Sol, ancora, come un terribile vento luminoso proveniente dagli abissi del pianeta. Sol premette contro l'uragano di luce, ma fu respinto come da un campo di contenimento impazzito.

Il sole di Hyperion era tramontato e un vento gelido soffiava dalle lande, spinto da un fronte di aria fredda che dalle montagne scivolava sul deserto e poi verso sud; Sol si girò a fissare la polvere vermiglia che turbinava nell'intensa luce delle Tombe che si aprivano.

Le Tombe si aprivano!

Sol socchiuse gli occhi per proteggerli dal bagliore e guardò nella valle, dove le altre Tombe scintillavano come fuochi fatui verde chiaro dietro la cortina di polvere spinta dal vento. Lunghe ombre guizzavano sul fondovalle, mentre in alto le nuvole erano prosciugate degli ultimi colori del tramonto e la notte giungeva col gemito del vento.

Qualcosa si muoveva nel vano di ingresso del secondo edificio, la Tomba di Giada. Sol scese barcollando i gradini della Sfinge, lanciò un'occhiata al vano in cui lo Shrike era scomparso portandosi via sua figlia, poi corse al di là delle zampe della Sfinge e barcollò lungo il sentiero sferzato dal vento, diretto alla Tomba di Giada.

Qualcosa si mosse lentamente dall'ovale di ingresso e si stagliò contro la luce emanata dalla Tomba; ma Sol non riuscì a dire se fosse una creatura umana o no, lo Shrike o no. Se era lo Shrike, l'avrebbe afferrato a mani nude, l'avrebbe scosso finché non gli avesse restituito la figlia o uno dei due non fosse morto.

Non era lo Shrike.

Ora Sol vedeva che la sagoma era umana. La persona barcollò, si appoggiò allo stipite della Tomba di Giada, come se fosse ferita o stanca.

Era una giovane donna.

Sol pensò a Rachel, lì, in quel posto, più di mezzo secolo standard prima, la giovane archeologa che studiava quei manufatti e mai avrebbe immaginato quale sorte l'attendesse, sotto forma del morbo di Merlino. Sol si era sempre raffigurato la salvezza di sua figlia: sconfitta la malattia, la piccina sarebbe cresciuta di nuovo normalmente, sarebbe ridiventata una donna. E se invece fosse tornata come la Rachel di ventisei anni che era entrata nella Sfinge?

Sol si sentì rombare il sangue nelle orecchie, con tanta intensità da cancellare il rumore del vento che infuriava intorno a lui. Agitò il braccio in direzione della figura, ora quasi oscurata dalla tempesta di polvere.

La giovane donna gli rispose allo stesso modo.

Sol corse per altri venti metri, si fermò a trenta dalla Tomba, gridò: — Rachel! Rachel!

La giovane donna stagliata nella luce ruggente si spostò dal vano della porta, si portò le mani al viso, gridò qualcosa che andò perso nel vento, cominciò a scendere i gradini.

Sol corse, inciampò nei sassi quando smarrì il sentiero, barcollò alla cieca nella valle, non badò al dolore quando col ginocchio urtò una roccia bassa, ritrovò il sentiero, arrivò alla base della Tomba di Giada, incontrò la donna proprio mentre lei usciva dal cono di luce in espansione.

Appena Sol fu alla base della scala, la donna cadde; lui l'afferrò al volo, la distese gentilmente per terra, mentre la sabbia gli frustava la schiena e le maree del tempo turbinavano intorno a loro in riflussi di vertigine e di déjà vu.

— Sei proprio tu! — disse la donna. Sollevò la mano a toccare la guancia di Sol. — Sei reale! Sono tornata.

— Sì, Brawne — disse Sol, cercando di mantenere ferma la voce; le scostò dal viso i ricci arruffati. La strinse con fermezza, con un braccio sul ginocchio, sorreggendole la testa e chinandosi in modo da ripararla meglio dal vento e dalla sabbia. — Tutto a posto, Brawne — disse piano, con occhi lucidi di lacrime di delusione che non avrebbe versato. — Tutto a posto. Sei tornata.

Meina Gladstone salì le scale della cavernosa Sala di Guerra e uscì nel corridoio dove larghe strisce di perspex massiccio offrivano la vista dell'altopiano di Tharsis da monte Olympus. Molto più in basso pioveva e da quella posizione, quasi a dodici chilometri di altezza nel cielo marziano, Gladstone vedeva il balenio di fulmini e le cortine di elettricità statica, mentre la tempesta si trascinava sulle alte steppe. Sedeptra Akasi uscì nel corridoio e restò in silenzio a fianco del PFE.

— Ancora nessuna notizia di Leigh o di Severn? — domandò Gladstone.

— Nessuna — rispose Akasi. Il viso della giovane nera era illuminato dalla luce livida del sole del Sistema Patrio in alto e dal gioco di fulmini in basso. — Le autorità del Nucleo dicono che forse c'è stato un cattivo funzionamento del teleporter.