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— Credo che Bonzo sia morto. L’ho sognato l’altra notte. Ricordo lo sguardo che aveva quando l’ho colpito al volto con la nuca. Penso di avergli spinto le ossa nasali nel cervello. Il sangue gli usciva dagli occhi. Credo che sia morto in quel momento…

— È stato soltanto un sogno.

— Mazer, non voglio continuare a sognare queste cose. Ho perfino paura di dormire. Sono costretto a ripensare a cose che non voglio ricordare. Tutto il passato mi ripassa nella testa, come se io fossi un registratore e qualcuno mi accendesse per tirarne fuori le cose più terribili della mia vita.

— Possiamo anche imbottirti di tranquillanti, se è questo che chiedi. Mi rattrista molto che tu faccia brutti sogni. Vuoi che ti compri un orsacchiotto da tenere fra le braccia?

— Non mi prenda in giro! — protestò Ender. — Ho paura che finirò per impazzire.

Il dottore aveva fissato il bendaggio e si alzò. Mazer lo ringraziò e attese che fosse uscito. — È davvero questa la tua paura? — chiese.

Lui ci pensò sopra e non seppe cosa rispondere. — Nei sogni che faccio — mormorò, — non sono neppure sicuro d’essere me stesso.

— I sogni strani sono una valvola di sfogo, Ender. Io ti ho messo sotto pressione, ed è un momento critico nella tua vita. La psiche reagisce alla tensione, e nient’altro. Ora non sei più un bambino, ed è tempo che tu la smetta di aver paura la notte.

— Saggio consiglio — annuì Ender. E decise che non avrebbe mai più parlato dei suoi sogni a Mazer.

I giorni si susseguirono, e le battaglie richiesero sempre più energia psicofisica, finché Ender seppe d’essere sul binario vertiginoso dell’autodistruzione. Cominciò ad avere forti dolori allo stomaco. Il dottore gli prescrisse una dieta, ma presto perse completamente l’appetito. — Mangia — gli ordinava Mazer, e lui si portava meccanicamente il cibo alla bocca. Se però nessuno era lì a incitarlo non mangiava neppure un boccone.

Altri due comandanti di squadrone ebbero collassi nervosi uguali a quello di Petra, e le responsabilità che gravavano sui rimanenti si appesantirono. In ogni battaglia adesso il nemico li superava per tre o quattro a uno; inoltre s’era fatto più svelto a ritirarsi quando era in pericolo, e riusciva a prolungare di molto lo scontro. Talvolta occorrevano ore e ore di inseguimenti stressanti prima che l’ultima nave nemica fosse finalmente distrutta. Ender si decise a far ruotare i comandanti di squadrone durante il corso di una stessa battaglia, mettendo ragazzi più freschi e riposati al posto di quelli che cominciavano a diventare tardi di riflessi.

— Sai una cosa? — gli disse una volta Bean, sostituendo Zuppa Cinese al comando dei suoi restanti astrocaccia. — Questo gioco non è più molto divertente.

Poi un pomeriggio, mentre era in piena seduta di addestramento, Ender vide le luci offuscarsi e precipitò nel buio. Quando si risvegliò, steso sul pavimento, qualcuno stava dicendo che s’era spaccato un labbro e un sopracciglio contro il quadro dei comandi.

Lo portarono a letto, e per tre giorni non ebbe la forza di alzare un dito. Dormì quasi sempre, a tratti svegliandosi da sogni in cui ricordava d’aver visto delle facce, ma più che facce di persone vere gli eran parse maschere imperfette portate da misteriosi personaggi onirici. Sognò, o credette di sognare, a volte Valentine e a volte Peter, o i suoi amici della Scuola di Guerra, o gli Scorpioni che lo vivisezionavano. Una volta ebbe un sogno molto realistico in cui vide il colonnello Graff chino su di lui, che gli parlava dolcemente come un padre. Il mattino del quarto giorno aprì gli occhi e vide che nella stanza c’era il suo nemico, Mazer Rackham.

— Sono sveglio — disse Ender.

— Così sembra — annuì Mazer. — Hai riposato abbastanza. Oggi c’è una battaglia.

Quando ebbe scoperto che riusciva a stare in piedi, Ender andò a lavorare al simulatore e vinse lo scontro. Ma quel giorno non ci fu una seconda battaglia, e Mazer lo mandò a letto presto. Spogliandosi era debole e gli tremavano le mani.

Durante la notte gli parve di sentire qualcuno che gli sfiorava il volto con leggerezza. Dita lievi e gentili, un tocco affettuoso. Sognò di udire delle voci.

— Avrebbe potuto essere più comprensivo con lui.

— La comprensione non è in programma.

— Quanto crede che possa resistere? Sta cedendo.

— Ce la farà. È quasi finita ormai.

— Così presto?

— Pochi giorni e tutto sarà concluso.

— Come crede che si comporterà, nelle condizioni in cui è?

— Bene. Oggi ha combattuto perfino meglio del solito.

Nel sogno le voci erano quelle del colonnello Graff e di Mazer Rackham. Ma nei sogni accadono cose strane e incredibili, e quello non faceva eccezione, perché poi una delle voci disse: — Non sopporto più di vedere quello che gli stiamo facendo. — E l’altra rispose: — Lo so. Anch’io gli voglio bene. — Subito dopo i due personaggi diventarono Valentine e Alai, che lo stavano seppellendo con palate di terra, ma il suo corpo crebbe fino alle dimensioni di una collina, si coprì di cespugli e la pioggia lo scarnificò, e come fra le costole del Gigante gli Scorpioni costruirono tane dentro di lui.

Sogni e ancora sogni. Se al mondo c’era qualcuno desideroso di dare riposo al suo corpo mortale, questo succedeva solo nei sogni.

Si svegliò, combatté un’altra battaglia e vinse. Poi tornò a letto, lasciò che i sogni scorressero su di lui finché fu di nuovo il momento di destarsi, e ancora una battaglia, ancora una vittoria, ancora una notte in cui sogno e realtà continuavano a confondersi. Non che questo gli importasse più, ormai.

Nessuno glielo aveva detto, ma quello che lo attendeva sarebbe stato il suo ultimo giorno alla Scuola Ufficiali. Quando si svegliò, Mazer Rackham non era in camera. Si lavò, tirò fuori un’uniforme pulita e attese che Mazer tornasse ad aprirgli la porta. Dieci minuti dopo, poiché il vecchio non si faceva vedere, tentò la maniglia. La porta si aprì.

Possibile che Mazer fosse stato così distratto da lasciarlo libero e a se stesso, quel mattino? Nessuno a dirgli che era l’ora di mangiare, che era l’ora di andare al lavoro, o che era l’ora di riposare un po’. Libertà. Il guaio era che non sapeva bene cosa farsene di quella novità. Per un momento pensò di andare a cercare i suoi comandanti di squadrone e parlare con loro faccia a faccia, ma non aveva idea di dove alloggiassero. Magari a venti chilometri da lì, per quel che ne sapeva. Così, dopo aver vagabondato una mezz’ora per i tunnel più frequentati tornò alla mensa. Fece colazione seduto allo stesso tavolo di alcuni marines che parlavano di sesso, argomento su cui lui aveva soltanto informazioni teoriche. Seccato da questa riflessione andò al simulatore per distrarsi un po’. Libero o non libero, non gli veniva in mente altro che fare un paio d’ore di pratica.

Quando entrò in sala la prima persona che vide fu Mazer. Con scarso entusiasmo Ender ubbidì al suo cenno e andò verso di lui. Poi tolse di tasca una pillola e la ingoiò; si sentiva poco energico e alquanto ottuso di mente.

Mazer lo fissò accigliato. — Pensi d’essere sveglio, Ender?

I posti degli spettatori erano pieni di ufficiali dei due sessi, in divisa, e c’era anche qualche civile. Ender si domandò chi fossero, ma non si prese la briga di chiederlo; ben difficilmente, comunque, qualcuno sarebbe stato così affabile da presentarsi. Andò ai comandi del simulatore e sedette, preparandosi a cominciare.

— Ender Wiggin — disse Mazer Rackham, — fammi la gentilezza di voltarti un momento. La battaglia di oggi necessita di qualche spiegazione.

Ender ruotò sulla poltroncina girevole e gettò un’occhiata alla gente seduta nella penombra. Molti avevano l’espressione scaltrita ed impenetrabile dei burocrati, specialmente i civili; ma fra loro vide Anderson. La sua presenza lo sorprese, e si chiese chi si stesse prendendo cura della Scuola di Guerra in sua assenza. Vide anche Graff, e lo sguardo dell’uomo gli ricordò momenti migliori, il lago, la villa che da qualche tempo nella sua memoria aveva sapore di casa. Portami a casa, disse silenziosamente a Graff. Nel sogno hai detto che mi volevi bene. Portami a casa.