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Dormimmo un po’, o almeno dormii io. Pete mi scrollava la spalla e diceva piano: — Svegliati. Dobbiamo essere quasi arrivati. Si sono accese le luci.

Un bagliore fioco penetrava sopra, sotto e attraverso il telone che copriva il dinosauro che ci era servito da letto. Sbadigliai. — Ho freddo.

— Lamentati. Ti ho tenuta abbracciata stretta. Il mio corpo era esposto all’aperto. Sto gelando.

— Hai quello che ti meriti. Stupratore. Sei troppo magro. Come coperta non vali due soldi. Pete, dobbiamo farti ingrassare. A proposito, non abbiamo fatto colazione. E se penso al cibo… Credo che vomiterò.

— Uh… Scavalcami e cerca di scaricarti lì nell’angolo. Non qui, se no ci finiamo dentro. E fai il meno rumore possibile. Qui attorno potrebbe già esserci qualcuno.

— Bruto. Bruto senza cuore. Mi fai talmente schifo che non vomiterò.

Nell’insieme, mi sentivo abbastanza bene. Avevo preso una delle pastigliette blu appena prima di lasciare la cabina Bb, e pareva che funzionasse. Avevo una farfalla o due nello stomaco, ma non dovevano essere troppo muscolose; non erano di quelle che urlano: «Fammi uscire!» E avevo con me il resto della scorta che il dottor Jerry mi aveva dato. — Pete, qual è il piano?

— Lo chiedi a me? Questa evasione l’hai preparata tu, non io.

— Sì, però tu sei un uomo, grosso e forte e virile, e russi. Pensavo che prendessi tu il comando e studiassi i particolari mentre io dormivo. Mi sono sbagliata?

— Be’… Friday, qual è il tuo piano? Il piano che hai preparato quando non ti aspettavi di avere anche me al seguito.

— Non era un grande piano. Dopo che atterriamo, dovranno aprire una porta, un portello per i passeggeri o una delle grosse porte per le merci. Una o l’altra non fa differenza, perché appena aprono io scappo fuori di qui come un gatto spaventato, pronta a calpestare tutto quello e tutti quelli che mi sbarrano la strada… e non mi fermo finché non sono molto lontana dalla nave. Non voglio fare del male a nessuno, ma spero che nessuno si sforzi di fermarmi, perché non mi lascerò fermare.

— Un buon piano.

— Dici? In effetti non è un piano. Solo una decisione. Si apre una porta e io balzo fuori.

— È un buon piano perché non ha parti complicate che possano andare storte. E tu avrai un grosso vantaggio. Non oseranno farti niente.

— Vorrei poterne essere sicura.

— Se ti succede qualcosa, sarà per un incidente, e il responsabile verrà appeso per i pollici. Come minimo. Adesso che ho sentito il resto della tua storia, so perché mi hanno dato istruzioni così enfatiche. Friday, non ti vogliono viva o morta; ti vogliono in perfetta salute. Ti lasceranno scappare prima di farti qualcosa.

— Allora sarà facile.

— Non contarci troppo. Okay, sei una tigre, però è già stato dimostrato che un numero sufficiente di uomini può placcarti e tenerti ferma. Lo sappiamo tutti e due. Se sanno che sei scomparsa… E penso che lo sappiano. La scialuppa ha lasciato l’orbita con oltre un’ora di ritardo.

— Oh! — Gettai un’occhiata all’indice. — Sì, ormai dovremmo essere a terra. Pete, mi stanno cercando!

— Credo di sì. Ma era inutile svegliarti prima che si accendessero le luci. A questo punto hanno avuto quattro ore per accertarsi che non sei sul ponte superiore, con gli escursionisti di prima classe. Avranno controllato anche gli emigranti. Quindi, se sei qui, se non te ne stai nascosta sulla nave, devi essere nella stiva. Guarda che sto semplificando, perché in uno spazio enorme come questa scialuppa ci sono centinaia di modi per giocare a nascondino. Ma terranno d’occhio i due passaggi obbligati, la porta per le merci a questo livello e il portello passeggeri qui sopra. Friday, se usano gente a sufficienza, e la useranno, e se quei bastardi hanno reti e cavi e corde moschicide, e le avranno, ti prenderanno senza torcerti un capello appena scendi dalla scialuppa.

— Oh. — Ci pensai su. — Pete, se arriviamo a questo ci saranno morti e feriti. Potrei crepare io stessa, ma pagheranno un prezzo elevato per la mia carcassa. Grazie di avermi avvertita.

— Potrebbero anche non farlo. Potrebbero sorvegliare le uscite in modo molto evidente, per costringerti a restare qui. Quindi gli emigranti scendono… Lo sai che escono dalla porta per le merci, no?

— Non lo sapevo.

— Be’, è così. Quelli scendono, vengono controllati, dopo di che i porci chiudono la grande porta e riempiono la stiva di gas soporifero. Oppure di gas lacrimogeno, e ti costringono a uscire con gli occhi gonfi e la testa sottosopra.

— Brr! Pete, su questa nave, sono davvero attrezzati con quei gas? Me lo sono chiesto.

— Hanno anche di peggio. Senti, il comandante della nave lavora ad anni luce di distanza dalla legge e dall’ordine, e in caso di emergenza può contare solo su una manciata di uomini. In quarta classe, quasi a ogni viaggio, questa nave trasporta una gang di criminali disposti a tutto. È logico che esistano le attrezzature per riempire di gas ogni scompartimento a piacere. Però, Friday, tu non sarai qui quando useranno i gas.

— Eh? Vai avanti.

— Gli emigranti passano nel corridoio centrale della stiva. Questa volta ce ne sono quasi trecento. Nella loro zona saranno più stretti di sardine in scatola. Sono talmente tanti che presumo non siano riusciti a conoscersi tutti quanti fra loro, nel poco tempo che hanno avuto. Sfrutteremo questo vantaggio. Più un vecchio, vecchissimo metodo, Friday. Quello che Ulisse ha usato con Polifemo…

Pete e io ce ne stavamo acquattati in un angolo quasi buio, fra la parte più alta del generatore e qualcosa chiuso in una grossa cassa. Le luci cambiarono, e udimmo il mormorio di molte voci. — Arrivano — sussurrò Pete. — Ricorda, scegli qualcuno che sia impacciato da troppa roba. Ce ne saranno parecchi. I nostri vestiti vanno bene. Non sembriamo di prima classe. Però dobbiamo avere qualcosa in mano. Gli emigranti sono sempre carichi. Mi è stato assicurato.

— Cercherò di prendere il figlio a qualche donna — dissi io.

— Perfetto, se ce la fai. Zitta, eccoli qui.

Erano davvero carichi di roba, per colpa di quella che mi sembra una politica pidocchiosa delle compagnie di linea. Un emigrante può portare con sé tutto quello che riesce a infilare nei ripostigli per scope che in terza classe chiamano cabine, purché riesca a portarlo giù dalla nave senza essere aiutato da qualcuno; è questa la definizione di «bagaglio a mano». Ma se deve mettere qualcosa nella stiva, paga la tariffa merci. So che la compagnia deve avere il suo guadagno, ma non è detto che politiche del genere debbano piacermi. In ogni caso, quel giorno avremmo cercato di volgere a nostro vantaggio la pidocchieria.

Quando ci passarono davanti, quasi nessuno guardò dalla nostra parte, e i pochi non dimostrarono alcun interesse. Apparivano stanchi e preoccupati, e probabilmente lo erano. C’erano un sacco di bambini, e quasi tutti piangevano. Le prime venti o trenta persone della colonna ci superarono in fretta. Poi la fila rallentò (più bambini, più bagagli) e i ranghi si serrarono. Era arrivata l’ora di fingere di essere una delle «pecore».

Poi, di colpo, in quel caos di odori umani, di sudore e sporcizia e preoccupazioni e paura e muschio e pannolini bagnati, un odore si stagliò chiaro come il tema del Galletto d’Oro nell’Inno al sole di Rimsky-Korsakov, o come un leitmotif wagneriano nel Ciclo dell’Anello; e io strillai: — Janet!

Una donna pesante, sul lato opposto della fila, si girò a guardarmi, e lasciò cadere due valigie e mi strinse. — Marjie! — E un uomo con la barba stava dicendo: — Ve lo avevo detto che era a bordo! Ve lo avevo detto! — E Ian accusava: — Sei morta! — e io staccai la bocca da quella di Janet il tempo sufficiente per dire: — No, non sono morta. Il secondo pilota Pamela Heresford ti invia i suoi più calorosi saluti.