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(Ridicolo. Sarebbe bastato un po’ di gas soporifero dai condotti dell’aria per mettermi fuori gioco.)

Oppure: «Capitano, avete mai visto un aborto fatto coi ferri da maglia? Siete invitato a vedere. A quanto ne so, può essere uno spettacolo piuttosto sanguinoso».

(Ancora più ridicolo. Posso parlare di aborto; non posso farlo. Anche se la creatura che ho dentro non è carne della mia carne, è pur sempre il mio innocente ospite.)

Cercai di non sprecare tempo in queste riflessioni inutili e di concentrarmi invece su un piano di rivolta, pur continuando a comportarmi normalmente. Quando l’ufficio del commissario di bordo annunciò che era ora di iscriversi per le escursioni a Botany Bay, fui tra i primi ad arrivare. Feci domande, mi portai opuscoli in cabina, e firmai e pagai in contanti per tutti i percorsi migliori e più costosi. Quella sera, a cena, chiacchierai col capitano delle escursioni che avevo scelto, chiesi la sua opinione su tutte, e mi lamentai di nuovo perché il mio nome era sparito dall’elenco di Avamposto e lo pregai, questa volta, di controllare personalmente; come se il capitano di un incrociatore gigante non avesse niente di meglio da fare che eseguire commissioni per Miss Dollaro Facile. Da quanto vidi, lui non batté ciglio; di certo non mi disse che non potevo scendere a terra. Ma forse era un bugiardo matricolato come me; e io ho imparato a mentire con la faccia più onesta del mondo fin da quando ero piccola così.

Quella sera (tempo della nave) mi trovai al Buco Nero coi miei tre primi corteggiatori: il dottor Jerry Madsen, Jaime «Jimmy» Lopez, e Tom Udell. Tom è primo vice supercargo, e io non avevo mai capito di cosa si trattasse. Sapevo sólo che aveva una spallina in più degli altri due. La prima sera a bordo, Jimmy mi aveva detto in tono solenne che Tom era portinaio capo.

Tom non lo aveva negato. Si era limitato ad aggiungere: «Hai dimenticato che sono anche facchino capo».

Quella sera, a meno di settantadue ore da Botany Bay, scoprii in parte cosa faceva Tom. La scialuppa di dritta era in fase di carico per Botany Bay. — La scialuppa di babordo l’abbiamo caricata alla Piantadifagiolo — mi disse: — Quella di dritta invece è stata riempita per Avamposto. Adesso per Botany Bay ci servono tutte e due, quindi c’è da spostare un po’ di roba. — Sorrise. — Molto lavoro, molto sudore.

— Ti farà bene, Tommy. Stai ingrassando.

— Parla per te, Jaime.

Chiesi in che modo caricassero la scialuppa. — Il portello mi sembra piuttosto piccolo.

— Non facciamo passare le merci da lì. Vuoi vedere come ce la caviamo?

Così presi appuntamento con lui per il mattino dopo. E scoprii diverse cose.

Le stive della Forward sono talmente enormi che ispirano più agorafobia che claustrofobia. Ma anche le stive delle scialuppe sono grandi. E anche una parte delle merci è gigantesca, in particolare le macchine. Botany Bay aspettava un turbogeneratore Westinghouse, grosso come una casa. Chiesi a Tom come diavolo avrebbe fatto a spostare quello.

Lui sorrise. — Magia nera. — Quattro dei suoi operai chiusero il turbogeneratore in una rete metallica e vi attaccarono una scatola di metallo grande quanto una valigetta. Tom andò a ispezionare, poi disse: — Okay, fuoco.

Il caposquadra fece fuoco, e quel mostro di metallo tremò e si sollevò di un soffio: un’unità antiG portatile, non diversa da quella di un Vma, però esposta all’aria aperta anziché chiusa nel suo guscio.

Con estrema attenzione, a mano, usando funi e pali, gli uomini fecero passare la macchina in una porta enorme, fino alla stiva della scialuppa. Tom mi fece notare che anche se il mostro galleggiava per aria, libero dalla gravità artificiale della nave, era enormemente poderoso come sempre, e avrebbe potuto schiacciare un uomo come un uomo schiaccia un insetto.

— Dipendono l’uno dall’altro e devono fidarsi a vicenda. La responsabilità è mia, ma a un morto non interesserebbe niente se la colpa ricadesse su di me. Devono badare l’uno all’altro.

La sua vera responsabilità, mi spiegò, era assicurarsi che ogni cosa fosse sistemata nel punto previsto e fosse saldamente legata contro le accelerazioni, e anche accertarsi nel modo più assoluto che le grandi porte per le merci, sui due lati, fossero a perfetta tenuta stagna ogni volta che venivano chiuse dopo essere state aperte.

Tom mi mostrò gli spazi della scialuppa riservata agli emigranti. — Abbiamo più nuovi coloni per Botany Bay che per tutti gli altri posti. Quando ripartiremo, la terza classe sarà quasi deserta.

— Sono tutti australiani? — chiesi.

— Oh, no. La maggioranza sì, però quasi un terzo non lo sono. Comunque hanno una cosa in comune. Tutti quanti conoscono bene l’inglese. È l’unica colonia che chieda la conoscenza di una lingua. Stanno cercando di fare in modo che l’intero pianeta abbia una sola lingua.

— Ne ho sentito parlare. Perché?

— Pensano che ci saranno minori probabilità di guerre. Può darsi… Ma le guerre più sanguinose della storia sono state guerre fratricide. Senza problemi di lingua.

Non avevo opinioni, quindi non commentai. Lasciammo la scialuppa dal portello passeggeri, e Tom lo chiuse dietro di noi. Poi mi ricordai di aver lasciato dentro una sciarpa. — Tom, l’hai vista? Sono certa che l’avevo nella stiva emigranti.

— No, ma la troveremo. — Si girò e aprì il portello.

La sciarpa era dove l’avevo lasciata cadere, fra due panche nella zona per i coloni. La feci passare al collo di Tom e abbassai il suo viso a livello del mio e lo ringraziai, e lasciai che la mia gratitudine arrivasse fino al punto che lui preferiva: abbastanza lontano, ma non troppo, perché lui era ancora in servizio.

Meritava i migliori ringraziamenti. Il portello aveva una serratura a combinazione. Adesso potevo aprirlo.

Quando tornai dall’ispezione alle stive e alla scialuppa, era quasi l’ora di pranzo. Shizuko, come sempre, stava facendo un lavoro o l’altro (non è necessario tutto il tempo di una donna per fare in modo che un’altra sia ben vestita e truccata.)

Le dissi: — Non voglio andare in salone. Voglio fare una doccia veloce, mettere un accappatoio e mangiare qui.

— Cosa desidera la signorina? Ordino.

— Ordina per tutte e due.

— Per me?

— Per te. Non voglio mangiare da sola. È semplicemente che non mi va di vestirmi per il salone. Non discutere. Chiedi il menù. — Mi avviai al bagno.

La sentii cominciare a ordinare, ma quando chiusi l’acqua lei era pronta con un salviettone morbido e gigantesco, e ne aveva uno più piccolo allacciato alla vita: la perfetta ragazza del bagno pubblico. Dopo che mi ebbe asciugata e aiutata a mettere l’accappatoio, il montacarichi squillò. Mentre lei tirava fuori la roba, io portai un tavolino nell’angolo dove avevo parlato con Pete-Mac. Shizuko corrugò la fronte ma non discusse; cominciò ad apparecchiare. Io chiesi musica al terminale e di nuovo scelsi brani ad alto volume, di rock classico.

Shizuko aveva messo in tavola un solo piatto. Girandomi verso di lei, così che le mie parole le arrivassero nonostante la musica, dissi: — Tilly, metti qui anche il tuo piatto.

— Cosa, signorina?

— Piantala, Matilda. La farsa è finita. Con questa sistemazione possiamo parlare.

Lei esitò un solo attimo. — Okay, signorina Friday.

— Meglio che mi chiami Marj, così io non dovrò chiamarti signorina Jackson. Oppure chiamami Friday, è il mio vero nome. Tu e io dobbiamo mettere le carte in tavola. Fra parentesi, la tua recitazione da cameriera è perfetta, ma non c’è più bisogno di preoccupartene quando saremo in privato. Dopo il bagno posso asciugarmi da sola.

Lei quasi sorrise: — Mi piace occuparmi di te, signorina Friday. Marj. Friday.

— Oh, grazie. Mangiamo. — Le misi il sukiyaki nel piatto.

Dopo qualche boccone (la conversazione procede meglio col cibo) dissi: — Tu cosa ci guadagni?