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Painter sapeva di potersi sentire sollevato. Guardandolo di traverso un’ultima volta, Gunther si voltò e ritornò tra le macerie annerite.

«Ecco quello che volevo mostrarvi.» Anna indicò quella devastazione con un ampio gesto del braccio.

«La Campana», disse Painter.

«È stata distrutta. Un atto di sabotaggio.»

Lisa fissò le macerie. «Ed è stata la Campana a far ammalare Painter.»

«Ed era l’unica possibilità di cura.»

Painter studiò il disastro.

«Avete un duplicato della Campana?» chiese Lisa. «Oppure potete fabbricarne un’altra?»

Anna scosse la testa lentamente. «Uno dei componenti essenziali non può essere riprodotto: lo Xerum 525. Pur essendo passati sessant’anni, non siamo stati in grado di riformularlo.»

«Perciò niente Campana, niente cura», sentenziò Painter.

«Ma forse c’è una possibilità, se ci aiutiamo a vicenda.» Anna gli porse la mano. «Le do la mia parola.»

Non senza una certa rigidità ed esitazione, Painter strinse la mano della donna. Ci doveva essere qualche sotterfugio, qualcosa che Anna non aveva detto. Tutte quelle spiegazioni avevano il solo scopo di fuorviarlo. Perché offrirgli quell’accordo?

D’un tratto capì.

«L’incidente…»

Sentì le dita di Anna contrarsi fra le sue.

«Non è stato un incidente, vero?» Painter ricordò la parola che aveva usato la donna. «È stato un sabotaggio.»

Anna annuì. «Inizialmente abbiamo pensato che si trattasse di un incidente. Altre volte avevamo avuto problemi di sovracorrente, che causavano improvvisi picchi della potenza di uscita della Campana. Niente di straordinario. Scaricando le energie in eccesso si erano verificati alcuni casi di malattia a livello locale e qualche decesso.»

Painter dovette trattenersi dallo scuotere la testa. Niente di straordinario, aveva detto Anna. Quelle malattie e quei decessi erano stati abbastanza straordinari da indurre Ang Gelu a inviare una richiesta d’aiuto dall’altra parte del mondo, facendo arrivare Painter fin lì.

Anna proseguì: «Ma, qualche notte fa, qualcuno ha manomesso le regolazioni durante un test di routine della Campana, aumentando la potenza d’uscita in modo esponenziale»

«E cancellando il monastero e il villaggio.»

«Esatto.»

Painter strinse la presa. Lei era sul punto di ritrarre la mano, ma lui non aveva nessuna intenzione di permetterglielo. Quella donna era ancora elusiva, non aveva rivelato tutto quanto. Ma, come era certo dell’emicrania che lo straziava, Painter era ormai certo anche della verità, che dava un senso a quell’offerta di cooperazione. «Ma non sono stati colpiti soltanto i monaci e gli abitanti del villaggio. Anche tutti voi. Siete tutti malati come me. Non è la rapida degenerazione neurologica riscontrata al monastero, ma il più graduale deterioramento fisico che sto subendo anch’io.»

Anna lo fissò con gli occhi semichiusi, ponderando quanto rivelare, poi annuì. «Eravamo parzialmente schermati, protetti, in una certa misura. Abbiamo convogliato la parte peggiore delle radiazioni della Campana verso l’alto e poi all’esterno.»

Painter ricordò le luci spettrali avvistate in cima alle montagne. Per risparmiare se stessi, i tedeschi avevano sommerso di radiazioni le vicinanze, compreso il monastero. Ma gli scienziati del castello non erano rimasti del tutto incolumi.

Anna sostenne il suo sguardo, impassibile, decisa. «Ora siamo tutti condannati alla stessa sentenza di morte.»

Painter rifletté sulle sue possibilità di scelta. Non ne aveva. Sebbene nessuna delle parti si fidasse dell’altra, erano tutti sulla stessa barca, perciò potevano pure stringersi un po’. Painter concluse la stretta di mano, suggellando il patto. La Sigma e i nazisti, assieme.

SECONDO

7. IL MAMBA NERO

Riserva di Hluhluwe-Umfolozi,

Zululand, Sudafrica,

ore 05.45

Khamisi Taylor era in piedi di fronte alla scrivania del capo guardacaccia. Rigido e impettito, aspettava che il sovrintendente Gerald Kellog finisse di leggere il suo rapporto preliminare sulla tragedia del giorno precedente.

L’unico suono era il cigolio di un ventilatore a pala che rimestava lentamente l’aria.

Khamisi indossava vestiti presi in prestito: pantaloni troppo lunghi, una camicia troppo stretta. Ma almeno erano asciutti. Dopo aver trascorso tutto il giorno e la notte nello stagno tiepido, immerso fino alle spalle in quella pozza fangosa, con le braccia doloranti per aver tenuto puntato il fucile tutto il tempo, apprezzava quei vestiti caldi e la terra sotto i piedi. Apprezzava anche la luce del giorno. Dalla finestra sul retro dell’ufficio, l’alba dipingeva vagamente il cielo di rosa. Il mondo riemergeva dall’oscurità.

E lui era sopravvissuto.

Era vivo, ma non aveva ancora del tutto accettato quella realtà.

Le urla dell’ukufa gli echeggiavano ancora nella testa.

Gerald Kellog si lisciava distrattamente i folti baffi ramati, mentre continuava a leggere. Il sole del mattino luccicava sulla sua testa pelata, conferendole una lucentezza rosea e untuosa. Finalmente alzò lo sguardo, fissando Khamisi da sopra un paio di occhialini da lettura, due mezze lune sulla punta del naso.

«E questo è il rapporto che lei vorrebbe che io archiviassi, signor Taylor?» Il sovrintendente fece scorrere un dito lungo una riga del foglio giallo. «‘Un grande predatore sconosciuto’: è tutto quello che è in grado di dire sull’animale che ha ucciso e trascinato via la dottoressa Fairfield?»

«Signore, non l’ho potuto guardare bene. Era grosso e aveva il pelo bianco, come ho riferito.»

«Una leonessa, forse», propose Kellog.

«No, signore, non era una leonessa.»

«Come fa a esserne così sicuro? Non ha appena detto che non l’ha visto?»

«Sissignore. Quel che intendevo dire, signore… è che ciò che ho visto non corrispondeva a nessun predatore conosciuto del Lowveld.»

«E allora cos’era?»

Khamisi restò zitto. Non era così sciocco da citare l’ukufa. Alla luce del giorno, sussurrare storie di mostri avrebbe provocato soltanto derisione.

«Perciò una qualche creatura ha attaccato e trascinato via la dottoressa Fairfield, una bestia che lei non ha visto abbastanza chiaramente per poterla identificare.»

Khamisi annuì lentamente.

«Tuttavia lei è scappato e si è nascosto nello stagno. Secondo lei, che idea dà, questo rapporto, del nostro servizio? Uno dei nostri guardacaccia lascia che una donna di sessant’anni venga uccisa, mentre lui scappa a nascondersi con la coda tra le gambe, senza nemmeno sapere che cosa li ha attaccati.»

«Signore, questa non è una giusta…»

«Giusta?» tuonò il sovrintendente, gridando abbastanza da essere sentito nella stanza accanto, dove per l’emergenza era stato convocato l’intero staff. «È giusto che io debba chiamare i familiari della dottoressa Fairfield per informarli che la loro madre o nonna è stata aggredita e divorata mentre uno dei miei guardacaccia, uno dei miei guardacaccia armati, scappava a nascondersi?»

«Non c’era nulla che io potessi fare.»

«Tranne che salvare quella pellaccia…»

Khamisi sentì la parola omessa di proposito: salvare quella pellaccia nera.

Gerald Kellog non aveva assunto Khamisi con entusiasmo. La famiglia del sovrintendente era legata all’ex governo afrikander e lui aveva fatto carriera grazie a quelle conoscenze e a quei legami. Apparteneva ancora al vecchio country club Oldavi, esclusivamente bianco, il quale, anche dopo la fine dell’apartheid, era un importante centro di potere. Sebbene fossero state approvate nuove leggi, abbattute barriere e fossero stati costituiti sindacati, gli affari erano ancora affari in Sudafrica. I De Beers erano ancora proprietari delle miniere di diamanti e i Waalenberg possedevano quasi tutto il resto.