Nel frattempo Esk, ascoltando senza parere, aveva trovato la carovana che si radunava per dirigersi a Ankh-Morpork. Il capoccia sedeva a un tavolo fatto da un’asse appoggiata su due barili.

Era affaccendato.

Stava parlando con un mago.

Come sanno i viaggiatori esperti, un gruppo che si accinge ad attraversare un paese potenzialmente ostile, dovrebbe disporre di un buon numero di spade. Ma dovrebbe assolutamente avere con sé un mago, in caso siano necessarie le sue arti magiche e, se così non è, per accendere il fuoco. Un mago di terzo livello o di livello superiore non si aspetta di pagare per avere il privilegio di unirsi al gruppo. Si aspetta piuttosto di essere ricompensato. In quel momento si stavano concludendo le delicate trattative.

— Abbastanza equo, Maestro Treatle, ma che mi dici del giovanotto? — domandò il capoccia, un certo Adab Gander, una figura imponente, in giustacuore, cappello floscio portato con aria spavalda, e gonnellino di pelle. — Non è un mago, si vede.

— È apprendista — ribatté Treatle, un mago alto e sparuto, che dai paludamenti risultava appartenere agli Antichi e Originali Fratelli della Stella d’Argento, uno degli otto ordini della loro specie.

— Allora non è mago, lui — affermò Gander. — Conosco le regole, e uno non è un mago se non ha la verga. E lui non ce l’ha.

— Proprio ora è diretto all’Università Invisibile per sistemare questo piccolo dettaglio — replicò Treatle con aria di superiorità. I maghi rinuncialo al denaro ancor meno di quanto le tigri rinuncino alle loro zanne.

Gander guardò il giovanotto in questione. Ai suoi tempi aveva conosciuto parecchi maghi e si reputava buon giudice. Doveva ammettere che quel ragazzo sembrava avere la stoffa del mago. In altre parole, era un tipo sottile, anzi scarno, con il pallore di chi legge libri inquietanti in ambienti insalubri, con occhi acquosi simili a due uova in camicia. Al capoccia venne fatto di pensare che per accumulare (potere) bisogna meditare.

"Per arrivare in cima" pensò "gli serve soltanto un piccolo handicap. I maghi soffrono di malanni come asma e piedi piatti, sembra che in certo modo gli diano la carica."

— Come ti chiami, ragazzo? — gli chiese il più gentilmente possibile.

— Ssssssssss — disse quello. Il pomo d’Adamo gli andava su e giù come un pallone prigioniero. Rivolse un muto appello al suo compagno.

— Simon — disse Treatle.

— … imon — completò Simon, riconoscente.

— Sei capace di lanciare palle di fuoco o incantesimi vorticosi, del tipo di quelli da scagliare contro un nemico?

Simon guardò di sottecchi Treatle.

— Nnnnnnnnnn — si arrischiò a rispondere.

— Il mio giovane amico pratica una magia superiore allo scagliare semplicemente dei sortilegi — asserì il mago.

— … o — terminò Simon.

Gander annuì. — Be’ forse diventerai davvero un mago, ragazzo. Forse, quando avrai la tua bella verga, consentirai una volta a viaggiare con me, sì? Farò un investimento su di te, sì?

— S…

— Fai un semplice cenno di testa — gli consigliò Gander, che non era per natura un uomo crudele.

Riconoscente, Simon fece cenno di sì. Treatle e Gander si misero d’accordo e quindi il mago si allontanò, seguito dall’apprendista, piegato sotto il peso del bagaglio.

Gander esaminò la lista che aveva davanti e cancellò "mago".

Sulla pagina si disegnò una piccola ombra. L’uomo alzò gli occhi e senza volerlo sobbalzò.

— Allora? — disse freddamente.

— Voglio andare ad Ankh-Morpork — disse Esk — per piacere. Ho del denaro.

— Torna a casa da tua madre, bambina.

— No, davvero. Voglio cercare la mia fortuna.

Gander sospirò. — Perché tieni in mano quella scopa?

Esk la guardò come se non l’avesse mai vista prima.

— Ogni cosa deve stare da qualche parte — spiegò.

— Torna a casa tua, ragazzina. Non conduco fuggiaschi ad Ankh-Morporh. Alle fanciulline possono accadere cose strane nelle grandi città.

L’interesse di Esk si risvegliò. — Che genere di cose strane?

— Senti, ti ho detto di tornare a casa, giusto? Ora!

Riprese in mano il gessetto e continuò a spuntare i vari articoli sulla sua lavagna, sforzandosi d’ignorare lo sguardo fisso che sembrava perforargli la cima della testa.

— Posso rendermi utile — annunciò Esk con calma.

Gander lasciò andare il gessetto e si grattò il mento, irritato.

— Quanti anni hai?

— Nove.

— Bene, signorina Noveanni. ho duecento animali e un centinaio di persone che vogliono andare ad Ankh, delle quali la metà odia l’altra metà, e non ho abbastanza uomini capaci di combattere, e dicono che le strade sono piuttosto cattive e che, lassù nelle Pap, i banditi si stanno facendo davvero sfrontati e che quest’anno i troll esigono un pedaggio più salato per attraversare il ponte e nelle nostre provviste ci sono calandre, insetti che le divorano e io continuo ad avere tutti questi grattacapi e, in una simile situazione, avrei bisogno di te?

— Oh! — Esk si guardò intorno nella piazza affollata. — Quali di queste strade porta ad Ankh, allora?

— Quella laggiù, con la porta.

La bambina lo ringraziò gravemente. — Addio. Spero che non avrai altri guai e che la tua testa vada meglio.

— Giusto — disse incerto Gander. Tamburellò con le dita sul tavolo mentre osservava Esk allontanarsi in direzione della strada per Ankh. Una strada lunga e tortuosa. Una strada infestata da ladri e da gnoll. Una strada che si arrampicava su per gli alti passi montani e si snodava attraverso deserti aridi.

— Oh, maledizione! — esclamò sottovoce. — Ehi! Tu.

Nonnina Weatherwax si trovava nei pasticci.

Anzitutto, decise, non avrebbe dovuto permettere a Hilta di convincerla a prendere in prestito la sua scopa: era vecchia, non affidabile, volava solo di notte e anche allora non riusciva ad andare che al trotto.

Il potere magico che la faceva sollevarsi in aria era diventato con l’uso talmente debole da cominciare ad agire soltanto quando il maledetto arnese aveva già preso una certa velocità. In effetti, quella era l’unica scopa ad avere bisogno di un energica messa in moto.

Fu così che, mentre Nonnina Weatherwax, sudando e imprecando, correva lungo un sentiero della foresta reggendo il dannato aggeggio all’altezza della spalla per il decimo tentativo, s’imbatté nella trappola da orsi.

Il secondo problema fu che l’orso l’aveva trovata per primo. In realtà il problema non si era rivelato poi tanto grave. Infatti la Nonnina, già di cattivo umore, aveva colpito l’animale dritto in mezzo agli occhi con la sua scopa tanto che quello sedeva ora lontano da lei quanto è possibile esserlo in una fossa, e si sforzava di non lasciarsi andare al pessimismo.

Fu una notte piuttosto scomoda né la mattina andò meglio per il gruppo di cacciatori che, verso l’alba, si affacciarono sull’orlo della fossa.

— Era tempo — esclamò la Nonnina. — Tiratemi fuori da qui.

Quelli, sbalorditi, ritirarono la testa e lei li sentì bisbigliare in fretta. Avevano visto il cappello e la scopa.

Alla fine ricomparve, con una certa riluttanza, un viso barbuto, come se il corpo al quale era attaccato venisse spinto in avanti.

— Uhm — cominciò l’uomo — ascolta, madre…

— Non sono una madre — scattò la Nonnina. — E certamente non sono tua madre, se mai ne hai avuta una, ciò di cui dubito. Se fossi tua madre, sarei scappata prima che tu nascessi.

— È solo un modo di dire — ribatté il cacciatore in tono di rimprovero.

— È un maledetto insulto, ecco che cos’è!

Altro rapido bisbiglio.

— Se non esco di qui — minacciò la Nonnina con voce tonante — ci saranno dei Guai. Lo vedi il mio cappello, eh? Lo vedi?

La testa ricomparve.

— È proprio questo il punto, no? — disse la voce. — Cioè, che succede se ti tiriamo fuori? Sembra meno rischioso, tutto considerato, se ci limitiamo a riempire la fossa. Niente di personale, capisci.