— Se non vuoi che parli, come sai che io capisco quello che hai appena detto? — sibilò.

— Chiudi il becco e dimmi che sta fascendo l’altro idiota!

— No, ma senti, se devo chiudere il becco, come posso… — Il coltello puntato alla gola gli inflisse un dolore acuto e lui decise di lasciar perdere la logica.

— Si chiama Duefiori. Non è di queste parti.

— Infatti non scembra. È un tuo amico?

— Tra noi c’è il genere di rapporto odio-odio, sì.

Scuotivento non poteva vedere il suo sequestratore ma sentirlo, gli pareva che avesse il corpo fatto di appendiabiti. Mandava anche un forte odore di menta piperita.

— Quello a ffegato, glielo conscedo. Fa esciattamente sciò che ti dico ed è posscibile che non finiscca con lo stesso intorscinato intorno a una pietra.

— Urrr.

— Vedi, da quesste parti la gente non è molto ecumenica.

Fu in quel momento che la luna, ubbidendo alle leggi della persuasione, si levò. Sebbene, in deferenza alle leggi del calcolo, non lo fece affatto vicino al punto pronosticato dalle pietre.

Ma ciò che faceva capolino tra le nuvole sfrangiate, era una minacciosa stella rossa. Che sovrastava esattamente la pietra più sacra del cerchio e brillava come la scintilla nell’occhiaia della Morte. Era cupa e orribile. E, Scuotivento non poté fare a meno di notarlo, un po’ più grande della notte precedente.

Un grido di orrore si levò dal gruppo dei sacerdoti. Dalle alture intorno la folla si pigiò in avanti, giudicando che la scena prometteva di essere interessante.

Scuotivento sentì che l’impugnatura di un coltello gli veniva fatta scivolare in mano e udì alle sue spalle la voce arrochita dire: — Hai mai fatto prima una coscia del genere?

— Che genere di cosa?

— Irrompere in un tempio, uccidere i sascerdoti, rrubare l’oro e libberare la fansciulla.

— No.

— Si fa coscì.

A nemmeno cinque centimetri dall’orecchio destro di Scuotivento, una voce emise d’improvviso un suono simile al verso del babbuino con una zampa presa in trappola, ingigantito dall’eco di un canyon. E una sagoma piccola ma vigorosa gli sfrecciò accanto.

Alla luce delle torce vide che si trattava di un uomo vecchissimo, del tipo scarno che in genere viene definito "agile", con la testa completamente calva, una barba quasi fino alle ginocchia e un paio di gambe simili a stecchini sulle quali le vene varicose avevano tracciato la pianta stradale di una città di grosse dimensioni. Malgrado la neve, non aveva addosso che un paio di brache di pelle ornato di borchie e un paio di stivali capaci di ospitare senza difficoltà un secondo paio di piedi.

I due druidi più vicini a lui si scambiarono un’occhiata e alzarono le loro falci. Una rapida macchia confusa e i due crollarono a terra contorcendosi di dolore e rantolando.

Nel parapiglia che seguì, Scuotivento scivolò verso la pietra dell’altare, reggendo guardingo il coltello per non attrarre indesiderati commenti. In realtà, nessuno gli prestava molta attenzione. I druidi, in massima parte i più giovani e più muscolosi che non erano fuggiti via dal circolo, si erano radunati intorno al vecchio a discutere del sacrilegio perpetrato verso il cerchio delle pietre. Però, a giudicare dal rumore delle cartilagini spaccate, era il vecchio a condurre il dibattito.

Duefiori osservava la battaglia con interesse. Il mago l’afferrò per la spalla.

— Andiamocene — gli disse.

— Non dovremmo aiutarlo?

— Sono sicuro che saremmo soltanto d’impaccio — rispose in fretta Scuotivento. — Sai com’è, se qualcuno sta a guardarti da sopra le spalle quando hai da fare.

— Almeno dobbiamo liberare la fanciulla — dichiarò l’ometto.

— Va bene, ma sbrighiamoci!

Afferrato il coltello, Duefiori corse all’altare. Dopo vari tentativi maldestri, riuscì a tagliare le corde che legavano la ragazza, la quale si tirò su a sedere e scoppiò in lacrime.

— Va tutto bene… — cominciò l’ometto.

— Bene un corno! — sbottò lei, lanciandogli un’occhiataccia. Aveva gli occhi arrossati. — Perché la gente deve impicciarsi e rovinare tutto? — Si soffiò il naso, risentita, con l’orlo della tunica.

Duefiori, imbarazzato, alzò gli occhi sull’amico.

— Uhm — disse — non credo che tu comprenda bene. Voglio dire, ti abbiamo appena salvata da morte certa.

— Non è facile da queste parti — disse lei. — Cioè, mantenersi… — arrossì e cincischiò nervosamente l’orlo della tunica. — Cioè, essere… non lasciarsi… non perdere le proprie qualifiche…

— Qualifiche? — chiese Duefiori. guadagnandosi la Coppa Scuotivento per la persona più lenta di comprendonio dell’intero multiverso. La ragazza strinse gli occhi.

— A quest’ora potevo trovarmi lassù con la Dea Madre a bere idromele in un boccale d’argento — disse petulante. — Otto anni passati a rimanere a casa il sabato sera buttati al vento!

Fissò Scuotivento con un cipiglio.

Il mago sentì qualcosa. Forse un passo appena udito alle sue spalle, forse un movimento riflesso negli occhi di lei… ma si buttò a terra.

Qualcosa sibilò nell’aria dov’era stato il suo collo e sorvolò la testa pelata di Duefiori. Scuotivento si girò di scatto e vide l’arcidruido prepararsi a sferrare un altro fendente con la sua falce. Non avendo la minima speranza di potere scappare, allungò violentemente un piede in avanti.

Il calcio prese con precisione il druido sulla rotula. L’uomo urlò e lasciò andare la sua arma, per poi cadere subito dopo in avanti. Alle sue spalle, l’ometto dalla lunga barba gli sfilò la spada dal corpo, la pulì con una manciata di neve e disse: — La mia lombaggine mi fa vedere le stelle. Potete portare voi il tesoro.

— Tesoro? — ripeté debolmente Scuotivento.

— Tutte le collane e altra roba. Tutti i monili d’oro. Ne hanno un sciacco. Quando sci disce i preti… Chi è la ragazza?

— Non vuole che la liberiamo — disse Scuotivento.

La ragazza lanciò al vecchio un’occhiata di sfida attraverso il mascara scolato.

— Cazzate — esclamò il vecchietto e con un solo movimento la prese su, barcollò un po’, gridò per l’artrite e cadde a faccia avanti.

Dopo un attimo disse, sempre prono: — Non stare lì impalata, cretina, aiutami ad alzarmi. — Con grande sorpresa di Scuotivento e quasi certamente della ragazza stessa, lei ubbidì.

Il mago, intanto, cercava di fare alzare Duefiori. Aveva sulla tempia un solco che non sembrava troppo profondo, ma l’ometto aveva perso conoscenza, un sorriso vagamente preoccupato stampato sulla faccia, il respiro debole e… strano.

E pareva leggero. Non semplicemente sottopeso, ma senza peso. Era come se il mago tenesse un’ombra.

Ricordò che si diceva che i druidi usassero strani e terribili veleni. Naturalmente, si diceva pure (di solito erano sempre le stesse persone) che gli imbroglioni avessero gli occhi ravvicinati, che il fulmine non colpisce mai due volte nello stesso posto e che se gli dei avessero voluto che gli uomini volassero, li avrebbero forniti di un biglietto aereo. Ma c’era un certo che nella leggerezza dell’amico che spaventava Scuotivento. Lo spaventava terribilmente.

Alzò gli occhi sulla ragazza. Questa si era messa il vecchio in spalla e rivolse al mago un sorrisetto di scusa. Da qualche parte, all’altezza dei reni della fanciulla, una voce disse: — Prescio tutto? Andiamoscene di qui prima che quelli tornino.

Scuotivento si mise l’amico sotto un braccio e trotterellò appresso a loro. Sembrava l’unica cosa da farsi.

In un burrone, a qualche distanza dai cerchi delle pietre, il vecchio aveva un grande cavallo bianco legato a un albero morto. L’animale aveva il mantello liscio e lucente e l’effetto generale di un superbo destriero da battaglia era solo vagamente rovinato dalla ciambella per emorroidi legata alla sella.

— Okay, mettimi giù. Sc’è una bottiglia di linimento nella sciacca della scella, se non ti dispiace…