Scuotivento appoggiò il più delicatamente possibile l’amico contro il tronco di un albero e alla luce della luna (nonché, notò, alla debole luce rossa della nuova stella minacciosa) ebbe per la prima volta l’occasione di guardare bene il suo salvatore.

L’uomo aveva un occhio solo, l’altro era coperto da una benda nera. Il corpo sottile era pieno di cicatrici e tormentato, di solito, dalla tendinite. I suoi denti avevano evidentemente deciso di abbandonarlo da un bel pezzo.

— Chi sei? — domandò.

Gli rispose la ragazza: — Bethan. — Massaggiava la schiena del vecchio con un unguento verde puzzolente. Aveva l’aria di una che, pregata di immaginare quali avvenimenti l’attendessero dopo essere stata liberata dal verginale sacrificio da un eroe dal bianco destriero, probabilmente non avrebbe menzionato il linimento. Ma che, essendo il linimento ciò che dopo tutto l’attendeva, era decisa a mostrare di saperci fare.

— Io volevo dire lui — replicò Scuotivento.

Un occhio lucente come una stella lo fissò.

— Cohen è il mio nome, ragazzo. — Le mani di Bethan si fermarono.

— Cohen? — chiese. — Cohen il Barbaro?

— Lui shtesso.

— Piantala, piantala — esclamò il mago. — Cohen è un tipo grande e grosso, il collo come quello di un toro, muscoli pettorali come un sacco di palloni da football. Voglio dire, lui è il più grande eroe del Disco, divenuto già leggendario in vita. Ricordo che il mio nonnino mi diceva di averlo visto… il mio nonnino mi diceva… Il mio nonnino…

S’impappinò sotto quello sguardo che lo trapassava. — Oh! Oh, certo. Scusami.

Cohen sospirò. — Sci. Proprio cosci, ragazzo. È da una vita che sciono una leggenda.

— Perdinci! — esclamò Scuotivento. — Quanti anni hai di preciso?

— Ottantascette.

— Ma tu eri il più grande! — disse Bethan. — I bardi ancora cantano di te.

Cohen scrollò le spalle e il dolore lo fece gridare.

— Niente royalties per me. — Il vecchio fissò gli occhi sulla neve con aria imbronciata. — Questa è la saga della mia vita. Ottanta anni nella mia professione e che mi resta per dimostrarlo? Mal di schiena, emorroidi, cattiva digestione e scento riscette di minestre. Minestre! Odio le minestre!

Bethan aggrottò la fronte. Minestre?

— Già, minestre — confermò Cohen con aria infelice. — Sciono i denti, vedi. Nessuno ti prende sul scerio, quando non hai più denti, ti dicono "Sciedi vicino al fuoco, nonnetto, e mangia un po’ di mine…". — S’interruppe per guardare il mago. — La tua è una brutta tosce, ragazzo.

Scuotivento distolse gli occhi, incapace di guardare Bethan in faccia. Poi gli si strinse il cuore: Duefiori, appoggiato all’albero, era sempre svenuto, con un’espressione di rimprovero sul viso per quanto gli era consentita nelle circostanze.

Anche Cohen si ricordò di lui. Si alzò in piedi a fatica e gli si avvicinò con passo strascicato. Gli sollevò le palpebre, esaminò la ferita sulla fronte, gli sentì il polso.

— È andato — sentenziò.

— Morto? — Nella mente combattuta del mago, una dozzina di emozioni si levarono in piedi e cominciarono a gridare. Il Sollievo aveva la meglio, quando s’intromise lo Shock e poi lo Sbalordimento, il Terrore e la Perdita si misero a battagliare e la smisero solo quando dalla porta accanto entrò di soppiatto la Vergogna a vedere che diavolo succedeva.

— No — rispose pensieroso Cohen — non esattamente. Soltanto… andato.

— Andato dove?

— Non lo so. Ma credo di sapere chi potrebbe avere una mappa.

Lontano sulla distesa di neve dei puntini rossi brillavano nell’ombra.

— Non è molto distante — asserì il mago che guidava il gruppetto, guardando in una piccola sfera di cristallo.

Dalla schiera dei compagni dietro a lui si levò un borbottio per significare che, per quanto distante fosse Scuotivento, non poteva essere più lontano di un bel bagno caldo, un buon pasto e un comodo letto.

Il mago che chiudeva la marcia si fermò e disse: — Ascoltate!

Ascoltarono. Si udivano i sottili rumori dell’inverno che cominciava a stringere la terra nella sua morsa, uno scricchiolio di rocce, lo scalpiccio soffocato di piccole creature nei loro cunicoli sotto il mantello di neve. In una foresta lontano un lupo ululò, si sentì imbarazzato quando nessuno si unì a lui, e smise. C’era anche il suono argenteo, simile a nevischio, della luce lunare. E anche l’ansimare di una mezza dozzina di maghi che si sforzavano di respirare piano.

— Non sento un bel niente… — cominciò uno.

— Ssst!

— Va bene, va bene…

Poi tutti lo sentirono: un debole scricchiolio lontano, come se qualcosa si muovesse molto rapidamente sulla crosta nevosa.

— Lupi? — disse uno dei maghi. A tutti loro vennero in mente centinaia di magri corpi affamati che avanzavano a balzi nella notte.

— N-no — affermò il capo. — È troppo regolare. Forse è un messaggero?

Adesso lo udivano più forte, un ritmo croccante come di uno che mastica molto in fretta del sedano.

— Lancerò un razzo — disse il capo. Raccolse una manciata di neve, ne fece una palla, la gettò in aria e l’accese con una fiammata di ottarino scaturitagli dalla punta delle dita… Una breve fiammella azzurra.

Una pausa di silenzio. Poi un altro mago proruppe: — Idiota che non sei altro, non vedo un tubo adesso.

Fu quella l’ultima cosa che udirono prima che dall’oscurità venissero urtati con violenza da una cosa dura e rapida che svanì nella notte.

Quando si estrassero a vicenda dalla neve, non scoprirono altro che la traccia lasciata da piccole orme. Centinaia di piccole orme di piedi, molto vicine le une alle altre, che indicavano la direzione attraverso la neve come la luce di un riflettore.

— Una negromante! — disse Scuotivento.

Di là dal fuoco, la vecchia alzò le spalle ed estrasse da una tasca invisibile un pacco di carte da gioco unte.

Malgrado fuori gelasse, dentro la tenda l’atmosfera era simile all’ascella di un fabbro e il mago già sudava abbondantemente. Lo sterco di cavallo era un buon combustibile ma il Popolo dei Cavalli aveva da imparare ancora un sacco sull’aria condizionata. A cominciare da ciò che significava.

Bethan si chinò verso Scuotivento vicino a lei per chiedergli: — Cos’è manto nero?

— Negromanzia. Parlare con i morti — le spiegò lui.

— Oh! — disse lei, vagamente delusa.

La loro cena era consistita di carne di cavallo, formaggio di cavallo, budino nero di cavallo e una birra leggera sulla quale Scuotivento preferì non indagare.

Cohen (al quale avevano dato minestra di cavallo) spiegò che le Tribù del Cavallo delle steppe del Centro erano nate in sella (cosa che a giudizio del mago era un’impossibilità ginecologica). E che quelle tribù erano particolarmente esperte di magia naturale; infatti la vita sulla steppa sterminata ti fa vedere come il cielo combaci a perfezione con la terra tutto intorno al bordo. E ciò naturalmente ispira alla mente pensieri profondi coi "Perché?", "Quando?" e "Perché non proviamo il manzo tanto per cambiare?".

Con un cenno a Scuotivento, la nonna del capotribù dispose le carte davanti a sé.

Come già è stato sottolineato, Scuotivento era il peggior mago del Disco: nessun altro incantesimo voleva rimanergli in mente una volta che l’Incantesimo vi si era insediato, pressappoco come il pesce non resta a ciondolare in uno stagno di lucci. Però il mago aveva ancora il suo orgoglio e ai maghi non garba vedere le donne operare anche la magia più semplice. L’Università Invisibile non aveva mai ammesso le donne, borbottando di problemi con l’impianto igienico. Ma la ragione vera era la paura non dichiarata che, una volta avuto il permesso di pasticciare con la magia, le donne probabilmente si sarebbero dimostrate brave. Cosa assai imbarazzante…

— Comunque, io non credo ai carocchi — mugugnò. — Tutte quelle chiacchiere che i carocchi sarebbero la saggezza distillata dell’universo, sono un mucchio di stupidaggini.