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Aenea avanzò nel passaggio centrale tra le file di banchi, scostando con gentilezza le persone fino a trovarsi nella parte sgombra, e avanzò verso il lontano altare.

«Lenar Hoyt!» gridò.

La sua voce echeggiò contro la cupola cento metri più in alto. Il papa esitò nella benedizione. Ci separavano da lui più di centocinquanta metri: Aenea non aveva nessuna possibilità di coprire quella distanza prima d’essere bloccata, ma le corsi dietro e la raggiunsi.

«Lenar Hoyt!» gridò di nuovo Aenea e centinaia di teste si girarono verso di lei. Scorsi movimento nelle arcate in penombra lungo la navata: le guardie svizzere entravano in azione. «Lenar Hoyt, sono Aenea, figlia di Brawne Lamia che andò con te su Hyperion per affrontare lo Shrike. Sono la figlia del cìbrido John Keats che i tuoi padroni del Nucleo hanno ucciso due volte in carne e ossa!»

Il papa rimase immobile, come paralizzato: il dito ossuto, l’attimo prima alzato nella benedizione, ora puntava e tremava come colpito da paralisi. L’altra mano stringeva i paramenti sul petto. La mitra tremava per il ciondolio della testa, avanti e indietro. «Tu!» gridò il papa, con voce alta, sottile, debole. «L’Abominio!»

«Sei tu, l’abominio» gridò Aenea, che ora correva, scostando figure vestite di scuro che si alzavano dai banchi per trattenerla. Le tolsi di dosso due uomini e lei continuò a correre. Scavalcai con un balzo una figura che si lanciava a tuffo e corsi al fianco di Aenea, mentre le guardie svizzere si facevano largo tra la folla, puntavano le picche a energia ma esitavano a usarle, con tanti dignitari del Vaticano e della Pax Mercatoria sulla linea di tiro. Se Aenea fosse giunta a dieci metri dal papa, non avrebbero più esitato, lo sapevo.

«Sei tu, l’abominio» gridò di nuovo Aenea, correndo più forte ora, scansando mani e braccia che cercavano di afferrarla e bloccarla. «Sei tu, il Giuda della Chiesa cattolica, Lenar Hoyt, tu che hai venduto la sua sacra storia al…»

Un uomo massiccio in uniforme da ammiraglio della Flotta della Pax estrasse dal fodero la spada da cerimonia e la brandì contro la testa della mia amata. Aenea evitò il colpo. Afferrai il braccio dell’ammiraglio, lo spezzai, allontanai con un calcio la spada e scaraventai l’ufficiale in fondo al banco, contro i suoi subordinati.

Ricordai una frase del colonnello Kassad: da quando aveva appreso il linguaggio dei vivi, sentiva il dolore che provocava agli altri. Anch’io facevo ora la stessa esperienza: mentre l’ammiraglio andava a sbattere contro i suoi uomini, sentii la lacerazione dei miei nervi e dei miei muscoli, la frattura dell’osso del mio braccio, l’urto del mio corpo contro quello degli altri. Ma quando guardai, il mio braccio era solido come prima e l’unica penalità era il dolore. Del dolore me ne fregavo.

Un cordone di preti, frati e vescovi si frappose tra Aenea e il papa. Il pontefice si strinse più forte il petto e cadde, ma diversi diaconi in piedi accanto a lui lo afferrarono al volo, lo sorressero, lo portarono sotto il baldacchino del trono del Bernini. Alcune guardie svizzere si precipitarono nello spazio in fondo al passaggio fra i banchi, bloccando con la picca e col corpo la strada a Aenea. Altre riempirono lo spazio alle nostre spalle, spingendo via brutalmente, a colpi di picca, gli spettatori. Agenti della sicurezza in corazza nera e cintura a repulsori accorsero volando dieci metri sopra la testa dei fedeli. Puntini laser danzarono sul viso e sul petto di Aenea.

Mi lanciai tra lei e le imminenti scariche di energia e nugoli di fléchettes. Il raggio laser mi accecò l’occhio sinistro, toccato dal puntino bersaglio. Spalancai le braccia e gridai qualcosa, una sfida forse, una sfida di certo.

«No! Prendeteli vivi!» L’ordine provenne da un gigantesco cardinale che gridava con un rombo simile alla voce di Dio.

Una guardia svizzera si lanciò verso Aenea per stordirla con un colpo di picca in testa. Aenea si gettò a terra, scivolò sulle piastrelle, colpì alle ginocchia la guardia svizzera, la mandò a gambe levate verso di me. Colpii con un calcio alla testa l’uomo disteso a terra e mi girai a strappare la picca dalle mani di un altro, spingendolo contro la folla e agitando l’arma verso le cinque guardie svizzere che accorrevano dal fondo. Queste si scostarono.

Dall’alto, un agente della sicurezza sparò due dardi e mi colpì alla spalla sinistra. Immaginai che contenessero sedativi, ma li strappai, li tirai all’agente in volo, non sentii niente. Due guardie, un uomo robusto e una donna ancora più robusta, mi afferrarono per le braccia. Li sollevai in aria, sbattei la testa dell’uno contro quella dell’altra, li lasciai cadere sulle piastrelle. «Aenea!» gridai.

Aenea era di nuovo in piedi: si liberò di una guardia, ma due agenti in armatura nera le bloccarono il passo. I fedeli gridavano. Il grande organo della basilica emise all’improvviso un gemito che pareva di donna in preda alle doglie. Un agente della sicurezza sparò a Aenea da cinque metri. Aenea si girò di scatto. Una donna in armatura nera la colpì usando l’arma come bastone, montò a cavalcioni su di lei, le piegò le braccia contro la schiena.

Con una manata scagliai all’indietro di cinque metri la puttana della sicurezza. Una guardia svizzera mi colpì con la picca allo stomaco. Un agente in volo mi centrò con uno storditore neurale. Gli storditori in teoria funzionano all’istante, sono garantiti per funzionare all’istante; ma ebbi il tempo di stringere le mani sulla gola della guardia svizzera più vicina, prima di ricevere una nuova scarica e poi una terza. In preda ai crampi, caddi a terra e mi orinai addosso, mentre tutte le funzioni volontarie cessavano: la mia ultima sensazione fu il caldo flusso di urina lungo la gamba dei calzoni e sulle perfette piastrelle di San Pietro.

Non ero realmente consapevole della decina di robuste figure che mi atterrarono sulla schiena, mi immobilizzarono le braccia, mi tirarono via. In realtà non udii né sentii il colpo sordo della mia fronte sulle piastrelle né lo squarcio che si aprì dal sopracciglio all’attaccatura dei capelli.

Negli ultimi tre o quattro secondi di semicoscienza, vidi piedi neri, stivali militari, il copricapo caduto a una guardia svizzera, altri piedi. Sapevo che Aenea era caduta alla mia sinistra, ma non potevo girare la testa per darle un’ultima occhiata.

Fui trascinato via, lasciando una scia di sangue, urina e saliva. Ormai non m’importava più di niente.

Così finisce la mia storia.

Ero cosciente, ma frenato da blocchi neurali, durante il "processo", una comparizione di dieci minuti davanti a giudici del Sant’Uffizio, vestiti di nero. Fui condannato a morte. Nessun essere umano si sarebbe sporcato l’anima per eseguire la condanna: sarei stato quindi chiuso, come il gatto nella scatola di Schrödinger, in una prigione in orbita intorno al pianeta in quarantena Armaghast. Le immutabili leggi della fisica e delle probabilità quantistiche avrebbero eseguito la sentenza.

Appena terminato il processo, mi spedirono, con una nave torcia automatica a propulsione Hawking, nel sistema di Armaghast, debito temporale due mesi. Dovunque fosse Aenea, qualsiasi cosa le fosse accaduto, quando mi svegliai proprio mentre terminavano di sigillare il guscio di energia fusa della mia prigione, ero già in ritardo di due mesi per esserle d’aiuto.

E per innumerevoli giorni, forse mesi, impazzii. E poi per altri innumerevoli giorni, sicuramente mesi, ho usato il grafer che hanno incluso nella mia minuscola cella a uovo per raccontare questa storia. Senz’altro sapevano che il grafer sarebbe stato una ulteriore punizione mentre aspettavo la morte e scrivevo la mia storia in poche pagine di micropergamena riciclata, come il serpente che si divora la coda, sapendo che mai nessuno leggerà la storia nel chip di memoria.

Ho detto all’inizio del mio racconto che tu, mio impossibile lettore, leggevi per la ragione sbagliata. Ho detto all’inizio che, se leggevi per scoprire la sorte di lei, o la mia, leggevi il documento sbagliato. Non ero con lei, quando il suo destino si compì; e il mio, fin da quando scrissi le prime parole di questa storia, è prossimo all’atto conclusivo.