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"Scilla, la via Alta settentrionale" trasmette Nemes sulla banda comune. "Briareo, il ponte di mezzo. Io prendo la funivia."

I due cloni annuiscono, brillano di luce tremula e scompaiono. L’addetto alla funivia si fa avanti per protestare con Nemes che scavalca la fila di persone in attesa. È un momento di grande traffico.

Rhadamanth Nemes afferra l’addetto alla funivia e lo scaraventa giù dalla piattaforma. Varie persone infuriate avanzano su di lei, gridando, decise a fare vendetta.

Nemes salta dalla piattaforma e afferra il cavo. Non ha carrucola, freni, imbracatura da scalata. Muta di fase solo la palma delle mani e si lancia a tutta velocità verso la cresta K’un Lun. Gli inseguitori inferociti — dieci, venti, anche di più — si agganciano al cavo e le danno la caccia. L’addetto alla funivia aveva molti amici.

Nemes impiega metà del tempo normale a scavalcare il grande abisso tra Phari e la cresta K’un Lun. Frena malamente per accostare, muta di fase all’ultimo momento e va a sbattere contro la roccia. Si tira fuori dall’incavatura sbriciolata sulla parete dello strapiombo alla base della cornice d’atterraggio e torna al cavo.

Con un gemere di carrucole i primi inseguitori percorrono gli ultimi metri. Altri compaiono all’orizzonte, perle nere su un filo sottile. Nemes sorride, muta di fase le mani, le alza e recide il cavo.

Nota con sorpresa quanto siano pochi, fra quegli uomini e donne condannati, quelli che urlano mentre scivolano lungo il cavo che frusta l’aria e precipitano incontro alla morte.

Nemes va alle corde fisse, si arrampica a mani nude e poi taglia tutto: funi di salita, funi per la corda doppia, funi di sicurezza. Cinque agenti armati del distretto di polizia di K’un Lun, giunti da Hsi wang-mu, la affrontano sulla cresta appena a sud della funivia. Nemes muta di fase solo il braccio sinistro e li spazza via sbattendoli nel vuoto.

Si volge a nordovest, regola la visione a infrarossi e telescopica, inquadra il grande ponte oscillante di bambù bonsai che congiunge i promontori della via Alta fra la cresta Phari e la cresta K’un Lun. Il ponte crolla sotto i suoi occhi: le assi, le funi e i cavi di sostegno frustano l’aria mentre cadono contro la linea di cresta occidentale e l’estremità del ponte si inabissa nelle nubi di fosgene.

"Fatto" trasmette Briareo.

"Quanti erano sul ponte?" domanda Nemes.

"Parecchi." Briareo chiude la trasmissione.

Un attimo dopo, Scilla si collega. "Ponte nord crollato. Distruggo la via Alta man mano che procedo."

"Bene" dice Nemes. "Ci vediamo a Jo-kung."

Mentre attraversano la città-forra Jo-kung, i tre passano in tempo lento. Cade una pioggerella, le nuvole sono dense come nebbia estiva. Nemes ha i capelli incollati alla fronte e nota che Scilla e Briareo hanno il suo stesso aspetto. La gente si apre davanti a loro. La cornice che porta al Tempio a mezz’aria è deserta.

Con Nemes in testa alla fila, si avvicinano all’ultimo, breve ponte sospeso prima della cornice sotto la scalinata del tempio. Quello è stato il primo manufatto riparato da Aenea, una semplice campata oscillante di venti metri sopra una stretta fenditura tra guglie di dolomite, un migliaio di metri più in alto dei dirupi inferiori e delle prime nubi. Ora la nuvolaglia monsonica si gonfia sotto la struttura gocciolante e tutt’intorno.

Sulla cornice dello strapiombo, dall’altra parte del ponte, tra la fitta nuvolaglia, c’è qualcosa. Nemes passa al visore termico e sorride nel vedere che l’alta sagoma non irradia il minimo calore. Con un impulso radar emesso dalla fronte colpisce l’immagine e la studia: tre metri di statura, spine, dita a lama in quattro mani più grosse del normale, un carapace che riflette perfettamente gli impulsi radar, lame aguzze sul petto e sulla fronte, niente respirazione, lame taglienti che sporgono dalle spalle e chiodi dalla fronte.

"Perfetto" trasmette Nemes.

"Perfetto" concordano Scilla e Briareo.

La figura dall’altra parte del ponte non dice niente.

Arrivammo alla montagna appena in tempo, con solo qualche metro di buono. Usciti dai margini inferiori della corrente a getto, perdemmo quota in maniera continua e irreversibile. Sopra l’oceano di nuvole c’erano poche termali e molte correnti d’aria fredda; superammo la prima metà dei cento chilometri in pochi minuti di eccitante accelerazione, ma la seconda metà fu una discesa da fermare il cuore, a volte sicuri che ce l’avremmo fatta con buon margine, a volte convinti che saremmo precipitati nelle nuvole e non avremmo neppure visto la morte salire a circondarci finché gli alianti non avessero colpito il mare di acido.

Scendemmo davvero nelle nuvole, ma erano nuvole monsoniche, nuvole di vapore acqueo, nuvole respirabili. Volavamo il più possibile in gruppo, delta azzurro, delta giallo, delta verde che quasi si sfioravano con l’intelaiatura metallica e il tessuto dell’ala, più timorosi di perderci e di morire in solitudine che di urtarci e di precipitare insieme.

Durante quella discesa piena di apprensione, Aenea e io ci parlammo solo una volta. La nebbia si era infittita; scorgevo a stento l’ala gialla alla mia sinistra e pensavo: "Ha avuto un figlio… ha sposato un altro… ha amato un altro…" quando udii la sua voce nell’auricolare della tuta.

"Raul?"

"Sì, ragazzina."

"Ti amo, Raul."

Esitai un istante, ma il vuoto emotivo che un momento prima aveva cercato di inghiottirmi fu spazzato via dallo slancio di affetto per la mia giovane amica e amante. "Ti amo, Aenea."

Scendemmo più in basso, nel buio. Mi parve di sentire nel vento un odore acre: il margine delle nubi di fosgene?

"Ragazzina?"

"Sì, Raul?" La sua voce era un bisbiglio nel mio orecchio. Ci eravamo tolti tutt’e due la maschera osmotica, anche se ci avrebbe protetti dal fosgene. Non sapevamo se A. Bettik potesse respirare quel veleno. Se non poteva, avremmo messo in atto il tacito accordo fra Aenea e me: chiudere la maschera e trascinare l’androide su per il pendio e fuori della fascia venefica, nella speranza di raggiungere i margini della montagna prima di colpire il mare di acido, se possibile. Sapevamo che era un piano debole (quando ero sceso sul pianeta, il radar della nave mi aveva mostrato che la maggior parte dei picchi e delle creste cadeva a piombo sotto lo strato di nubi di fosgene: per noi sarebbe stata solo questione di minuti, tra l’ingresso nelle nubi e la caduta nel mare in ogni caso) ma era meglio avere un piano che arrendersi al destino. Nel frattempo, ci eravamo tolti la maschera e respiravamo aria pura finché potevamo.

"Ragazzina" dissi "se sai che non funzionerà… se hai visto ciò che pensi sia…"

"La mia morte?" completò lei per me. Io non sarei riuscito a dirlo.

Mossi stupidamente il capo in un cenno di assenso: non poteva vedermi, nella nuvolaglia.

"Sono solo possibilità, Raul" disse Aenea, piano. "Ma quella che ha le maggiori probabilità di verificarsi non è questa. Non preoccuparti. Non vi avrei chiesto di accompagnarmi, se avessi pensato che questa fosse… quella giusta." Malgrado la tensione, nella sua voce c’era una traccia di divertimento.

"Lo so" dissi, lieto che A. Bettik non potesse sentirci. "No, pensavo a un’altra cosa." Pensavo che forse lei sapeva che l’androide e io saremmo riusciti a raggiungere la montagna, ma lei no. Ora non ci credevo. Finché il mio destino era intrecciato al suo, potevo accettare qualsiasi cosa. "Mi domandavo perché scappiamo di nuovo, ragazzina" dissi. "Sono stufo di scappare dalla Pax."

"Anch’io. E abbi fiducia, Raul, non stiamo facendo solo questo, qui. Oh, merda!"

Non era proprio parola da riportare tra quelle esclamate da un messia, ma in un secondo capii la ragione del suo grido. Venti metri davanti a noi era comparso un pendio roccioso, grossi massi tondeggianti fra tratti di pietrisco, pareti a picco più in basso.