Alla fine Lhomo giunse al limite. Poco prima avevo aperto la maschera osmotica del cappuccio per capire quanto fosse rarefatta l’aria: avevo provato a respirare, mi ero sentito come nel vuoto profondo e avevo subito richiuso la maschera. Non capivo come Lhomo riuscisse a respirare, pensare e agire, a quell’altitudine. Ora ci segnalò di continuare a girare più in alto nella termale che aveva sfruttato, ci rivolse l’antico segno di buona fortuna, pollice e indice uniti in cerchio, e poi lasciò uscire aria rarefatta dal suo aliante a delta e precipitò come un tommifalco in picchiata. Nel giro di qualche secondo il delta rosso fu a varie migliaia di metri sotto di noi, precipitando verso la linea della cresta, a ovest.
Continuammo a girare in cerchio e a salire; a volte perdevamo per un momento la corrente ascensionale, ma la ritrovavamo subito. I margini inferiori della corrente a getto ci spingevano verso est, ma seguimmo il consiglio finale di Lhomo e resistemmo alla tentazione di girare verso la nostra meta: ancora non avevamo quota né vento di coda sufficienti a compiere il viaggio di ottanta chilometri.
Incontrare la corrente a getto era come entrare all’improvviso nelle rapide, a bordo di un kayak. L’aliante di Aenea la incontrò per primo: vidi il tessuto giallo vibrare come in preda a un violento fortunale e la sovrastruttura di alluminio flettersi pazzescamente. Poi A. Bettik e io ci trovammo nella corrente e non potemmo fare altro che tenerci orizzontali nell’imbracatura oscillante dietro la barra di comando e continuare a girare in cerchio per aumentare la quota.
"È dura" mi disse all’orecchio la voce di Aenea. "Vuole liberarsi e puntare a est."
"Non possiamo" ansimai, tirando di nuovo il parapendio nel vento di testa, spinto più in alto in una grande cavalcata verticale.
"Lo so." La voce di Aenea era tesa. Ora mi trovavo a un centinaio di metri da lei e sotto di lei, ma riuscivo a vedere la sua piccola figura lottare con la barra di comando, gambe tese, piedi piantati all’indietro come chi si tuffa da una scogliera.
Scrutai intorno a me. Il vivido sole aveva un alone di cristalli di ghiaccio. Le linee di cresta, così in basso, erano quasi invisibili e le sommità dei picchi più alti si trovavano ora chilometri sotto di noi.
"Come se la cava A. Bettik?" mi domandò Aenea.
Con una torsione del corpo mi sforzai di guardare. L’androide girava in cerchio sopra di me. Teneva gli occhi chiusi, mi parve, ma faceva regolazioni sulla barra di comando. La sua pelle azzurra luccicava per un velo di brina. "Bene, credo" risposi. "Aenea?"
"Sì?"
"C’è qualche possibilità che la Pax a Shivling o in orbita intercetti le nostre comunicazioni via filo?" Avevo in tasca il diskey-diario/ricetrasmittente, ma avevamo deciso di usarlo solo al momento di chiamare la nave. Sarebbe stata una vera ironia, se ci avessero catturato o ucciso perché usavamo i comunicatori delle dermotute.
"Nessuna possibilità" ansimò Aenea. Anche con la maschera osmotica e il respiratore incorporato nella dermotuta, l’aria era povera d’ossigeno e fredda. "I fili hanno una portata molto ridotta. Mezzo chilometro al massimo."
"Allora non allontanarti" dissi e mi concentrai nel prendere ancora qualche centinaio di metri di quota, prima che l’uragano quasi silenzioso che mi sballottava spedisse l’aliante a sibilare verso est.
Fra qualche minuto non avremmo più potuto resistere alla violenza della corrente di quel fiume d’aria. La termale non diminuì, parve solo morire completamente: allora fummo alla mercé della corrente a getto.
"Andiamo!" gridò Aenea, dimenticando che il mio auricolare captava anche il suo minimo bisbiglio.
Vidi A. Bettik aprire gli occhi e farmi segno che tutto andava bene. Nello stesso istante il mio parapendio lasciò la termale e fu spinto a est. Anche con la scarsa trasmissione del suono, avevo l’impressione di rombare nell’aria a una velocità così incredibile da risuonare nelle orecchie. Il delta giallo di Aenea striò il cielo come un dardo di balestra. Il delta blu di A. Bettik lo seguì. Lottai con i comandi, capii di non avere la forza di cambiare il percorso nemmeno di un solo grado e mi limitai a tenermi attaccato, mentre saettavo a est e in basso nel violento fiume d’aria. Davanti a noi splendeva il T’ai Shan, ma ora perdevamo rapidamente quota e la montagna distava ancora molto. Vari chilometri più in basso, sotto il mare monsonico di nubi bianche, le verdastre nuvole di fosgene dell’acido oceano planetario ribollivano, invisibili ma in attesa.
Le autorità della Pax nel sistema di T’ien Shan erano perplesse.
Quando, a bordo della Jibril, ricevette il bizzarro segnale d’allarme dalla enclave della Pax a Shivling, il capitano Wolmak tentò di chiamare il cardinale Mustafa e gli altri, ma non ottenne risposta. Nel giro di qualche minuto inviò una navetta da combattimento con venticinque marines, compresi tre medici.
Il rapporto in codice su linea diretta con la nave lasciava perplessi. La sala conferenze nel gompa dell’enclave era una rovina sanguinolenta. Dappertutto c’erano schizzi di sangue umano e di viscere, ma l’unico corpo nella sala era quello del Grande Inquisitore, storpiato e accecato. I marines controllarono il DNA del maggiore schizzo di sangue arterioso e scoprirono che apparteneva a padre Farrell. Altre chiazze di sangue risultarono appartenere all’arcivescovo Breque e al suo aiutante, LeBlanc. Ma non c’erano cadaveri. Non c’erano crucimorfi. I medici riferirono che il cardinale Mustafa era in stato comatoso, sotto shock profondo, e prossimo alla morte; lo rimisero in sesto alla meglio, usando solo i kit da campo, e chiesero ordini. Dovevano lasciar morire il Grande Inquisitore e poi risuscitarlo o dovevano metterlo nel medibox della navetta e tentare di salvarlo, anche se sarebbero trascorsi vari giorni prima che riprendesse conoscenza e descrivesse l’accaduto? Altrimenti il medico poteva metterlo nell’apparecchiatura supporto vita, usare droghe per farlo uscire dal coma e interrogarlo nel giro di qualche minuto, ma intanto il paziente avrebbe sofferto moltissimo e sarebbe stato sempre in punto di morte.
Wolmak ordinò di aspettare e si mise in contatto con l’ammiraglio Lempriere, comandante della task force. Al limitare del sistema di T’ien Shan, a molte UA di distanza, le quaranta e passa navi che avevano sostenuto la battaglia contro la Raffaele ricuperavano sopravvissuti dalle Arcangelo irreparabilmente danneggiate e aspettavano l’arrivo della navetta automatica papale e della robonave del TecnoNucleo che avrebbe messo in animazione sospesa la popolazione del pianeta. Ancora nessuna delle due era giunta. Lempriere si trovava più vicino, quattro minuti luce, e la trasmissione avrebbe impiegato appunto quattro minuti a raggiungerlo e farlo accorrere. Wolmak pensò di non avere scelta. Rimase in attesa, mentre il messaggio partiva.
A bordo della nave ammiraglia Raguele, Lempriere si trovò in una situazione assai delicata, con solo qualche minuto per decidere sulla sorte del cardinale Mustafa. Poteva lasciar morire il Grande Inquisitore e confidare che il trattamento abbreviato per risuscitarlo in due giorni avesse successo. Il cardinale Mustafa non avrebbe sofferto troppo. Ma gli autori dell’attacco — lo Shrike, gli indigeni, i discepoli del mostro Aenea, gli Ouster? — sarebbero rimasti un mistero fino allora. Lempriere decise in dieci secondi, ma c’era un ritardo di quattro minuti nella trasmissione avanti e indietro.
«Dica ai medici di stabilizzarlo» trasmise a Wolmak sulla Jibril in orbita intorno al pianeta. «Lo metta nel supporto vita della navetta. Lo porti fuori. Lo interroghi. Quando ne sapremo abbastanza, chieda al robochirurgo una prognosi. Se si farà più in fretta a risuscitarlo, lo lasci morire.»
«Sissignore, sissignore» rispose Wolmak quattro minuti più tardi e passò parola ai marines.