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Nemes sorride. «Cosa fai, Tokra?»

«Sua Santità è andata al Hsuan-k’ung Ssu» dice il reggente dal viso smunto. «So perché volete andare da quella parte. Non vi sarà consentito di fare del male a Sua Santità il Dalai Lama.»

Rhadamanth Nemes allarga il sorriso. «Di cosa parli, Tokra? Per trenta monete d’argento hai venduto al servizio segreto della Pax il tuo caro bambino d’oro. Stiamo barattando per altre di quelle vostre stupide monete a sei facce?»

Il reggente scuote la testa. «L’accordo con la Pax era che Sua Santità non sarebbe mai stato toccato. Ma voi…»

«Noi vogliamo la testa della ragazza, non del vostro lama bambino» dice Nemes. «Fai spostare i tuoi uomini, altrimenti li perderai.»

Il reggente Tokra si gira e latra un ordine. Con viso feroce, i suoi soldati portano alla spalla le armi. Fila su fila, con la propria massa bloccano la via per il ponte, anche se il ponte è già rientrato nella montagna. Nubi scure ribollono nel baratro.

«Uccideteli tutti» dice Nemes e muta di fase.

Lhomo ci aveva addestrati tutti nei comandi del parapendio, ma non avevo mai avuto l’occasione di farne volare uno. Ora, mentre la parete si alzava dalla nebbia di fronte a me, dovevo fare immediatamente la manovra giusta o morire.

L’aliante era manovrato dalla barra di comando che pendeva davanti al passeggero dondolante dall’imbracatura; mi spostai tutto a sinistra per mettere sulla barra il maggior peso possibile consentito dalle cinghie. Il parapendio si inclinò, ma non abbastanza, mi accorsi subito: avrebbe intercettato la parete rocciosa un paio di metri dall’apice esterno del proprio arco. C’era un’altra serie di comandi — maniglie che lasciavano uscire aria dalla superficie dorsale al bordo d’entrata di ciascun lato dell’ala — ma erano comandi pericolosi e complicati, da usare solo in caso d’emergenza.

Già vedevo i licheni sulla parete sempre più vicina. Era un caso d’emergenza.

Tirai con forza la maniglia di sinistra; il nylon sul lato sinistro del parapendio si aprì come un sacco squarciato; la parte destra dell’ala, ancora sospinta dalla forte corrente ascensionale in quel punto della cresta, si inclinò quasi a perpendicolo; il parapendio rischiò di capovolgersi, con l’inutile parte sinistra che lasciava uscire aria come una griglia vuota; le mie gambe furono spinte in fuori di lato e l’aliante minacciò di entrare in stallo e precipitare sulle rocce; i miei stivali strusciarono davvero pietre e licheni; poi l’ala cominciò a cadere quasi a piombo, io lasciai la maniglia sinistra, la memostoffa nel lato sinistro si autoriparò in un istante e volavo di nuovo, ma in picchiata quasi verticale.

Le forti termali che salivano lungo la parete dello strapiombo colpirono l’aliante, con la forza di un ascensore; fui sbattuto verso l’alto e nel ricadere battei il petto contro la barra di comando con tale violenza da restare senza fiato; il parapendio precipitò, salì, cercò di fare una pigra volta con un raggio di sessanta o settanta metri. Mi trovai a penzolare di nuovo quasi a testa in giù: ora avevo l’aliante e i comandi sotto di me, ma la parete rocciosa proprio davanti, come prima.

Brutto affare: avrei concluso la volta contro la parete dello strapiombo. Diedi uno strattone alla maniglia d’emergenza di destra, perdetti portanza, rotolai di lato in una caduta che dava la nausea, sigillai l’ala, tirai le maniglie e la barra di comando, spostai freneticamente il peso del corpo per ritrovare l’equilibrio e il controllo. Le nubi si erano aperte quanto bastava a farmi vedere la parte dello strapiombo a venti o trenta metri alla mia destra, mentre lottavo contro le termali e con lo stesso aliante per avere una traiettoria sgombra.

Poi mi trovai in assetto orizzontale e manovrai quel dannato aggeggio in una spirale a sinistra, ma stavolta con prudenza — massima prudenza — e con un pensiero di ringraziamento allo squarcio nelle nubi che mi aveva consentito di giudicare la distanza dalla parete rocciosa; mi appoggiai tutto a sinistra sulla barra di comando. All’improvviso un bisbiglio mi risuonò nell’orecchio: "Uau! Lo spettacolo era proprio divertente. Ripetilo!".

Sobbalzai nell’udire la voce, guardai in alto e dietro di me. Il triangolo giallo vivo del parapendio di Aenea girava in cerchio sopra di me, molto vicino alle nubi che parevano un soffitto grigio.

"No, grazie" risposi, consentendo ai fili sulla gola della dermotuta di raccogliere le vibrazioni della laringe. "Ho finito di dare spettacolo, credo." Lanciai un’altra occhiata dalla sua parte. "Perché sei lì? Dov’è A. Bettik?"

"Ci eravamo dati appuntamento sopra le nuvole, non ti abbiamo visto e sono scesa a cercarti" disse con semplicità Aenea, in tono basso, al mio orecchio.

Sentii un attacco di nausea, più per il pensiero che Aenea aveva messo a rischio ogni cosa per venirmi a cercare, che non per le violente acrobazie di un momento prima. "Sono a posto" dissi, scorbutico. "Ho solo voluto provare la forza ascensionale della cresta."

"Già" disse Aenea. "È infida. Perché non mi segui su?"

La seguii, sacrificando l’orgoglio alla sopravvivenza. Non era facile tenermi in vista della sua ala gialla nella nebbia in continuo movimento, ma sempre più facile che non volare alla cieca lungo la parete dello strapiombo. Pareva che Aenea percepisse esattamente la posizione della parete: tagliava il nostro cerchio a cinque metri dalla roccia, prendeva la forte parte centrale delle termali, ma senza avvicinarsi o allontanarsi troppo.

Nel giro di qualche minuto uscimmo dalle nuvole. L’esperienza mi tolse il fiato, lo ammetto: prima un lento aumento del chiarore, poi un flusso di luce, poi l’emersione sopra le nuvole come un nuotatore che venga a galla su un mare spumeggiante, poi lo strizzare d’occhi per la vivida luce nell’abbagliante libertà del cielo azzurro e del panorama all’apparenza infinito in tutte le direzioni.

Solo i picchi e le creste più alte erano visibili sopra l’oceano di nuvole: il T’ai Shan luccicava, freddo e bianco di ghiaccio, molto lontano a est; l’Heng Shan era quasi alla stessa distanza, a nord; la nostra cresta Jo-kung sporgeva come lama di rasoio proprio sopra la marea di nuvole che correva indietro a ovest; la cresta K’un Lun era una lontana parete che andava da nordovest a sudest; e remote, molto remote, al limitare del mondo, risplendevano le cime del Chomo Lori, del monte Parnaso, del Kangchengjunga, del monte Koya, del monte Kalais e di altri che non potevo identificare da quell’angolazione. C’era uno scintillio di sole su un oggetto alto al di là della lontana cresta Phari e pensai che forse si trattava del Potala o del più basso Shivling. Smisi di guardare a bocca aperta e mi dedicai al nostro tentativo di prendere quota.

A. Bettik girò intorno a noi e mi rivolse il gesto del pollice alzato. Ricambiai il segnale e guardai in alto. Lhomo, cinquanta metri sopra di noi, segnalava: "Avvicinatevi. Fate cerchi stretti. Seguite me".

Seguimmo lui: Aenea saliva con facilità, tenendosi dietro Lhomo e un po’ di lato, l’aliante azzurro di A. Bettik seguiva il cerchio di ascesa dall’altra parte e io chiudevo il gruppo, quindici metri più in basso e cinquanta metri dall’androide.

Lhomo pareva sapere esattamente dov’erano le termali: a volte giravamo più lontano verso ovest, prendevamo la corrente ascensionale e allargavamo il cerchio per spostarci di nuovo a est. A volte avevamo l’impressione di non salire di quota, ma poi guardavo a nord l’Heng Shan e intuivo che avevamo percorso altre centinaia di metri verso l’alto. Lentamente salivamo e lentamente facevamo cerchi verso est, anche se il T’ai Shan distava ancora di sicuro ottanta o novanta chilometri.

Il freddo aumentava e respirare diventava più faticoso. Sigillai fino in fondo la maschera osmotica e inalai ossigeno puro, continuando a salire. La dermotuta mi si appiccicò addosso, funzionando da tuta a pressione e da tuta termica. Vedevo Lhomo rabbrividire nel chuba di pelo di zigocapra e nei pesanti mezzi guanti. Sul braccio nudo di A. Bettik c’era una patina di ghiaccio. E continuavamo a volare in cerchio e a salire. Il cielo divenne più scuro, lo scenario ancora più incredibile: il distante Nanda Devi a sudovest, l’Helgafell ancora più lontano a sudest e il picco Harney al di là dello Shivling divennero visibili sopra la curvatura del pianeta.