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"Muta di fase" ordina Nemes.

I monaci e l’anziano lama ci diedero un sacchetto di carta scura con il necessario per il pranzo. Diedero anche ad A. Bettik un’antiquata tuta a pressione del tipo che avevo visto solo nel museo dell’antico volo spaziale a Port Romance; ne offrirono una anche a Aenea e a me, ma le rifiutammo, mostrando la dermotuta che portavamo sotto il giubbotto termico. Quando varcammo la prima Porta Celeste, i milleduecento monaci si girarono a salutarci agitando il braccio e di sicuro due o tremila altri spingevano e allungavano il collo per vederci partire.

A parte noi tre, la grande scalinata era deserta. Ora salivamo con facilità; A. Bettik portava sulla schiena il casco trasparente ripiegato come un cappuccio, Aenea e io non ci eravamo calati sul viso la maschera osmotica. Ciascun gradino era largo sette metri, ma poco alto; la prima parte della salita fu abbastanza facile, con un’ampia terrazza ogni cento gradini. I gradini erano riscaldati dall’interno; così, anche mentre ci inoltravamo nella regione di ghiaccio e neve perenni a metà del T’ai Shan, la scala era sgombra.

Nel giro di un’ora avevamo raggiunto la seconda Porta Celeste, una enorme pagoda rossa con un voltone di quindici metri, e proseguimmo nella salita più ripida lungo la linea di faglia quasi verticale, la Bocca del Drago. Il vento aumentò d’intensità, la temperatura scese di colpo e l’aria divenne pericolosamente rarefatta. Alla seconda Porta Celeste ci eravamo rimessi l’imbracatura e ora ci agganciammo a una delle funi che correvano ai lati della scalinata, regolando la presa della carrucola in modo che agisse da freno se fossimo caduti o se il vento ci avesse spinto giù dai gradini sempre più infidi. Nel giro di qualche minuto A. Bettik gonfiò il casco trasparente e ci segnalò col pollice che tutto era a posto; Aenea e io sigillammo la maschera osmotica.

Continuammo a salire verso la Porta Celeste meridionale, ancora un chilometro più in alto, mentre intorno a noi il mondo sprofondava. Era la seconda volta in poche ore che ci si presentava un simile spettacolo, ma stavolta lo ammirammo appieno ogni trecento gradini, mentre con ansiti rumorosi riprendevamo fiato e guardavamo la luce del primo pomeriggio illuminare i grandi picchi. Tai’an, la Città di Pace, era ormai fuori vista, circa millecinquecento gradini e vari chilometri più in basso, sotto i campi di ghiaccio e le pareti rocciose che avevamo risalito. Mi ricordai che i comunicatori della dermotuta ci consentivano di nuovo l’intimità e dissi: "Come va, ragazzina?".

"Sono stanca" rispose Aenea, ma ravvivò con un sorriso la risposta.

"Puoi dirmi dove siamo diretti?"

"Al Tempio dell’Imperatore di Giada. Si trova sulla vetta."

"Ci avrei giurato" commentai, posando il piede sul largo gradino e alzando l’altro per posarlo sul gradino seguente. A quel punto la scalinata attraversava una sporgenza di roccia e ghiaccio. Se mi fossi girato a guardare di sotto, lo sapevo, avrei rischiato le vertigini. Era molto peggio del volo in parapendio. "Puoi dirmi per quale motivo saliamo al Tempio dell’Imperatore di Giada, mentre alle nostre spalle tutto va al diavolo?"

"Cosa intendi dire?"

"Intendo dire che probabilmente Nemes e i suoi cloni ci danno la caccia. La Pax sta per fare decisamente la sua mossa. Tutto va a rotoli. E noi andiamo in pellegrinaggio."

Aenea annuì. Ora il vento rombava anche nell’aria molto rarefatta: nel salire, infatti, eravamo entrati nella corrente a getto. Procedevamo a testa china, col corpo piegato, come sotto un pesante fardello. Mi domandai a che cosa pensasse l’androide.

"Perché non chiamiamo la nave e ce la filiamo in fretta e furia?" ripresi. "Se dobbiamo svignarcela, decidiamoci una buona volta."

Potevo vedere gli occhi di Aenea dietro la maschera che rifletteva l’azzurro sempre più scuro del cielo. "Appena chiameremo la nave" replicò la mia amica "venti o trenta navi della Pax caleranno su di noi come arpie. Non possiamo chiamarla, finché non saremo pronti."

Indicai la ripida scalinata. "E salire questa scala ci renderà pronti?"

"Me lo auguro" rispose piano Aenea. Negli auricolari udivo il sibilo del suo respiro.

"Cosa c’è lassù, ragazzina?"

Avevamo completato un’altra serie di trecento scalini. Ci fermammo, ansimanti, troppo stanchi per apprezzare il panorama. Eravamo saliti al limitare dello spazio. Il cielo era quasi nero. Alcune delle stelle più luminose erano visibili e una delle lune più piccole correva a precipizio verso lo zenit. "A meno che non sia una nave della Pax" pensai.

"Non so cosa troveremo, Raul" disse Aenea con voce stanca. "Scorgo di sfuggita degli eventi… continuo a sognarli… ma poi sogno lo stesso evento in un modo diverso. Non mi piace parlarne, finché non vedo quale realtà si presenta."

Annuii come se avessi capito, ma era una bugia. Riprendemmo la salita. "Aenea?"

"Sì, Raul."

"Perché non mi lasci fare… la comunione?"

Vidi la sua smorfia.

"Non mi piace chiamarla così."

"Lo so, ma così la chiamano tutti. Dimmi almeno questo: perché non mi lasci bere il vino?"

"Non è il tuo momento, Raul."

"Perché no?" Sentivo di nuovo, sotto la superficie, l’ira e la frustrazione mescolate alla torbida corrente d’amore che provavo per quella donna.

"Conosci i quattro passi di cui parlo…" cominciò Aenea.

"Apprendere il linguaggio dei morti, apprendere il linguaggio dei vivi… sì, sì, conosco i quattro passi" dissi, quasi con sufficienza, posando il piede vero su un vero gradino di solido marmo e muovendo stancamente un altro passo sull’infinita scalinata.

Aenea sorrise al mio tono. "Quelle cose tendono a… preoccupare la persona che le incontra per la prima volta" disse piano. "Al momento mi occorre la tua piena attenzione. Mi occorre il tuo aiuto!"

Questo aveva senso. Allungai la mano e le toccai la schiena sotto il giubbotto termico e la dermotuta. A. Bettik ci guardò e annuì come per approvare il nostro contatto. Ricordai a me stesso che non poteva avere ascoltato ciò che ci eravamo detti.

"Aenea, sei il nuovo messia?"

Lei sospirò. "No, Raul, non ho mai detto di essere un messia. Non ho mai voluto essere un messia. Al momento sono solo una donna stanca… ho mal di testa… e crampi… è il primo giorno del mio ciclo…"

Battei le palpebre per la sorpresa. "Be’, che diavolo" pensai "non accade tutti i giorni di confrontare il messia solo per sentirsi dire che ha ciò che gli antichi chiamavano ’le sue cose’."

Aenea si accorse del mio stupore e ridacchiò. "Non sono il messia, Raul. Sono stata semplicemente scelta per essere Colei che insegna. E cerco di insegnare, mentre… mentre posso."

Qualcosa, nella sua ultima frase, mi fece annodare lo stomaco per l’ansia. "E va bene" dissi. Terminammo altri trecento gradini e ci fermammo insieme, respirando ora più faticosamente. Guardai in alto. Non si vedeva ancora la Porta Celeste meridionale. Era mezzogiorno, ma il cielo aveva il colore nero dello spazio. Ardevano migliaia di stelle. Palpitavano appena. Mi resi conto che il sibilo e il rombo della corrente a getto erano scomparsi. Il T’ai Shan era il picco più alto di T’ien Shan, raggiungeva le frange più alte dell’atmosfera. Non fosse stato per le dermotute, gli occhi e le orecchie e i polmoni ci sarebbero esplosi come palloncini troppo gonfi. Il sangue sarebbe bollito. Il…

Cercai di pensare ad altro.

"D’accordo" dissi. "Ma se tu fossi davvero il messia, quale sarebbe il tuo messaggio alla specie umana?"

Aenea ridacchiò di nuovo, ma col tono di chi riflette, non di chi prende in giro. "Se fossi tu un messia" replicò tra un ansito e l’altro "quale sarebbe il tuo messaggio?"

Risi forte. A. Bettik non poteva avere udito il suono, nel quasi vuoto che ci divideva, ma di sicuro mi vide gettare indietro la testa, perché mi lanciò un’occhiata interrogativa. Lo tranquillizzai con un gesto e risposi a Aenea. "Non ne ho la minima idea."