«Un villaggio di pescatori;
danzare sotto la luna
all’odore di pesce crudo.
«Questa, e non mi riferisco alla poesia, è l’essenza del cercare la chiave della porta del Vuoto che lega. Centomila specie in un milione di mondi in giorni morti da tempo ebbero villaggi senza case, la danza sotto la luna in mondi privi di lune, l’odore di pesce crudo in oceani privi di pesci. Tutto ciò può essere condiviso al di là del tempo, al di là dei pianeti, al di là della durata dell’esistenza umana.
«Quarto, vedere nella propria natura e il raggiungimento della natura del Buddha. Per riuscirci, non occorrono decenni di zazen né battesimo ecclesiastico né studio accurato del Corano. La natura di Buddha è, in fin dei conti, l’essenza di essere uomo, superata la prova del fuoco. I fiori raggiungono tutti la natura di fiore. Un cane selvaggio o una zigocapra cieca raggiungono la natura di cane o la natura di zigocapra. Un luogo, qualsiasi luogo, ha garantita la propria natura di luogo. Solo la specie umana lotta e fallisce nel divenire ciò che è. Le ragioni sono molteplici e complesse, ma germogliano tutte dal fatto che ci siamo evoluti come uno degli "organi che vedono se stessi" dell’universo in evoluzione. Può l’occhio vedere se stesso?»
Aenea si interrompe per un momento e nel silenzio tutti udiamo il tuono brontolare da qualche parte al di là della cresta. Il monsone ci risparmia da alcuni giorni, ma il suo arrivo è imminente. Provo a immaginare quegli edifici, montagne, creste, cavi, ponti, passerelle e impalcature, coperti di ghiaccio e ammantati di nebbia. Il pensiero mi fa rabbrividire.
«Il Buddha capì che potevamo percepire il Vuoto che lega zittendo il frastuono di ogni giorno» riprende infine Aenea. «In questo senso, il satori è un grande e soddisfacente silenzio, dopo avere ascoltato per giorni o mesi di fila il suono squillante del vicino. Ma il Vuoto che lega è più che silenzio: è l’inizio dell’ascolto. Apprendere il linguaggio dei morti è il primo compito di chi entra nell’ambiente del Vuoto.
«Gesù di Nazareth entrò nel Vuoto che lega. Lo sappiamo. La sua voce è una delle più chiare, tra quelle che parlano nel linguaggio dei morti. Rimase a sufficienza per passare al secondo livello di responsabilità e di sforzo… nell’apprendimento del linguaggio dei morti. Apprese tanto bene da udire la musica delle sfere. Fu in grado di cavalcare le agitate onde di probabilità così lontano da vedere la propria morte e fu tanto coraggioso da non evitarla quando avrebbe potuto. E noi sappiamo che, almeno in una occasione, mentre moriva sulla croce, imparò a muovere quel primo passo, a muoversi attraverso il tessuto spaziotempo del Vuoto che lega, comparendo ad amici e discepoli in vari luoghi nel futuro rispetto al momento in cui pendeva, morente, sulla croce.
«E, liberato delle restrizioni del suo tempo dalla fuggevole visione dell’assenza di tempo nel Vuoto che lega, Gesù capì di essere lui la chiave, non i suoi insegnamenti, non le Scritture basate sulle sue idee, non l’abietta adulazione nei suoi confronti e neppure il Dio, all’improvviso evolutosi, del Vecchio Testamento in cui fermamente credeva, ma proprio lui, Gesù, un umano, le cui cellule portavano il codice di decrittazione per aprire la porta. Gesù capì che l’abilità di aprire quella porta non si trovava nella sua mente o nella sua anima, ma nella sua pelle, ossa, cellule, letteralmente nel suo DNA.
«Quando, durante l’ultima cena, Gesù di Nazareth chiese ai suoi seguaci di bere il suo sangue e di mangiare il suo corpo, non parlava per parabola, non chiedeva magica transustanziazione, non poneva la base per secoli di ripetizioni simboliche. Gesù volle che bevessero del suo sangue, poche gocce in un grande boccale di vino, e che mangiassero del suo corpo, pochi frammenti di pelle in una forma di pane. Diede una parte di sé nel senso più letterale, sapendo che coloro che bevevano del suo sangue avrebbero condiviso il suo DNA e sarebbero stati in grado di percepire il potere del Vuoto che lega nell’universo.
«E così fu per alcuni dei suoi discepoli. Ma, di fronte a percezioni e impressioni molto al di là della loro capacità di comprenderle o di collegarle, resi quasi pazzi dalle incessanti voci dei morti e dalle proprie reazioni al linguaggio dei vivi, e incapaci di trasmettere ad altri la propria musica del sangue, quei discepoli passarono ai dogmi, ridussero l’inesprimibile a rozze parole e ampollosi sermoni, a ferree regole e infiammata retorica. E la visione impallidì, poi svanì. La porta si chiuse.»
Aenea si interrompe di nuovo e sorseggia un po’ d’acqua da un boccale di legno. Noto solo allora che Rachel e Theo e alcuni altri hanno le lacrime agli occhi. Senza alzarmi dal tatami, mi giro e guardo dietro di me. A. Bettik, fermo nel vano della porta, con un’espressione seria sul viso azzurro senza età, segue con grande attenzione le parole della nostra giovane amica. Con la destra si regge il moncherino del braccio sinistro. Mi domando se gli duole.
Aenea riprende a parlare. «Cosa abbastanza strana, i figli della Vecchia Terra che per primi riscoprirono la chiave per il Vuoto che lega furono le entità del TecnoNucleo. Le intelligenze autonome, impegnate nel tentativo di guidare il loro stesso destino mediante l’evoluzione spinta a velocità milioni di volte superiore a quella biologica della specie umana, trovarono il codice chiave DNA per scorgere il Vuoto, anche se "scorgere" non è la parola giusta, naturalmente. Forse "risonare" esprime meglio il senso.
«Ma quelle entità potevano percepire ed esplorare i contorni del Vuoto che lega, inviare sonde nella sua realtà multidimensionale post-Hawking, ma non potevano capirlo! Il Vuoto che lega richiede un livello di empatia senziente che il TecnoNucleo non si è mai preoccupato di sviluppare. Il primo passo verso il vero satori nel Vuoto è l’apprendimento del linguaggio degli amati defunti: e le entità del Nucleo non hanno amati defunti! Il Vuoto che lega era come un magnifico quadro per un cieco che lo brucia come legna da ardere, o come una sinfonia di Beethoven per un sordo che percepisce la vibrazione e rinforza il pavimento per smorzarla.
«Anziché usare il Vuoto che lega come l’ambiente che è, le entità del TecnoNucleo ne liberarono frammenti e li offrirono all’uomo, spacciandoli per abili tecnologie. Il cosiddetto motore Hawking in realtà non si è sviluppato dall’opera dell’antico maestro Stephen Hawking, come sostiene il Nucleo, ma è una perversione delle sue scoperte. Le navi a motore Hawking che intesserono la Rete dei Mondi e permisero l’esistenza dell’Egemonia, funzionavano strappando piccoli buchi nel non-tessuto ai margini del Vuoto: un vandalismo di scarsa importanza, ma pur sempre vandalismo. I teleporter erano una faccenda diversa. Qui, amici miei, le mie similitudini non ci aiutano: imparare a camminare nell’ambiente Vuoto che lega è un po’ come imparare a camminare sull’acqua, se mi perdonate l’hybris ispirata alle sacre scritture, mentre i cunicoli teleporter del TecnoNucleo erano un po’ come prosciugare gli oceani per costruire autostrade sul letto del mare. La creazione di tunnel nell’ambito del Vuoto danneggiava parecchi miliardi di anni di crescita organica. Equivaleva ad asfaltare grandi tratti di una foresta vitale e rigogliosa. Ma pure questo paragone è insufficiente, perché sarebbe necessario che la foresta fosse costituita dei ricordi e delle voci dei milioni di esseri da noi amati e perduti, e che le autostrade asfaltate fossero larghe migliaia di chilometri, perché possiate capire solo una briciola del danno arrecato.
«Anche il cosiddetto astrotel che consentì la comunicazione istantanea nell’Egemonia era una perversione del Vuoto che lega. Di nuovo le mie similitudini sono rozze e inadeguate; ma immaginate alcuni aborigeni umani che scoprano una griglia elettromagnetica di telecomunicazioni funzionante — studi televisivi, olocamere, attrezzature per il suono, generatori, trasmettitori, satelliti relè, ricevitori, proiettori — e che rovinino tutto ciò su cui riescono a mettere le mani in modo da utilizzare i rottami come bandierine da segnalazione. È ancora peggio. È peggio di quanto non fosse nei giorni pre-Egira sulla Vecchia Terra, quando le gigantesche petroliere e le navi oceaniche assordavano le balene riempiendo di rumori meccanici i mari e soffocavano così i loro canti della vita e distruggevano una millenaria storia di canto in evoluzione, perfino prima che l’uomo sapesse che era cantato. Dopo questo, le balene decisero tutte di morire; a ucciderle non fu la caccia per ricavarne cibo e olio, ma la distruzione dei loro canti.»