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Rivolsi a Tynar un cenno di saluto e varcai il portale: ero quasi convinto di compiere un grave errore, a non tornare direttamente su TC2.

Su Pacem era notte, c'era molto più buio che nella penombra urbana di Vettore Rinascimento e per giunta pioveva. Pioveva forte, con quella violenza da pugni su fogli di lamiera che fa venire voglia di rannicchiarsi sotto pesanti coperte e aspettare il mattino.

Il portale era al coperto, in un cortile protetto da una mezza tettoia, ma abbastanza all'esterno per me da farmi sentire la notte, la pioggia e il freddo. Soprattutto il freddo. L'atmosfera di Pacem è densa la metà del valore standard della Rete, perché l'unico altopiano abitabile è alto il doppio delle città sul livello del mare di Vettore Rinascimento. A quel punto sarei tornato indietro, anziché incamminarmi nella notte e nella pioggia, ma un marine della FORCE uscì dall'ombra, con il fucile di assalto appeso in spalla ma pronto a essere usato, e mi chiese i documenti.

Gli lasciai esaminare la carta. Scattò sull'attenti. — Comandi!

— Questa città è Nuovo Vaticano?

— Signorsì.

Sotto la pioggia scorsi fuggevolmente la cupola illuminata. Indicai al di là del muro del cortile. — Quella è la cupola di S. Pietro?

— Signorsì.

— Sarà possibile trovarvi monsignor Edouard?

— Attraversi il cortile, giri a sinistra nella piazza, si presenti all'edificio basso a sinistra della cattedrale, signore!

— Grazie, caporale.

— Soldato semplice, signore!

Mi strinsi nel corto mantello, da cerimonia e quindi inutile contro una pioggia come quella, e attraversai di corsa il cortile.

Un umano, forse un prete, anche se non portava né tonaca né colletto rigido, aprì la porta del salone residenziale. Un altro umano, dietro una scrivania di legno, mi disse che monsignor Edouard era in casa, sveglio nonostante l'ora tarda. Avevo un appuntamento?

No, non l'avevo, ma desideravo parlare al monsignore. Era importante.

Di quale argomento? L'uomo alla scrivania lo chiese educatamente, ma con fermezza. Non era rimasto impressionato dalla carta di priorità assoluta. Sospettai di parlare a un vescovo.

Di padre Duré e di padre Lenar Hoyt, gli dissi.

Il tizio annuì, mormorò qualcosa in un microfono a goccia appeso al colletto, così piccolo che non l'avevo notato, e mi introdusse nel salone residenziale.

Quel locale faceva sembrare un palazzo sibarico la vecchia torre in cui il signor Tynar abitava. Il corridoio era anonimo, con pareti di intonaco scabro e porte di legno ancora più scabro. Una di queste era spalancata e, mentre vi passavamo davanti, scorsi di sfuggita una stanza più simile a una cella di prigione che a una camera da letto: brandina bassa, coperte rozze, inginocchiatoio di legno, cassettone privo di ornamenti con una brocca di acqua e una semplice catinella; niente finestre, niente pareti media, niente piazzuola olografica, niente banco di accesso dati. Immaginai che la stanza non fosse neppure interattiva.

Da un punto imprecisato provenivano voci che si alzavano in un canto/salmodia così elegante e atavico da farmi venire la pelle di oca. Canto gregoriano. Attraversammo un'ampia zona pranzo, semplice come le celle, e una cucina che sarebbe stata adatta ai giorni di John Keats; scendemmo una scala di pietra consunta, percorremmo un corridoio male illuminato, salimmo un'altra scala, più stretta. La guida mi lasciò; entrai in uno degli ambienti più belli che abbia mai visto.

Una parte di me sapeva che la Chiesa aveva trasferito e ricostruito la Basilica di S. Pietro, fino al punto di trapiantare nella nuova tomba sotto l'altare le ossa ritenute del Santo; ma un'altra parte ebbe l'impressione che mi avessero trasportato di nuovo nella Roma vista per la prima volta a metà novembre del 1820: la Roma dove rimasi a soffrire e morire.

Questo edificio era più bello ed elegante di quanto possa mai sperare una qualsiasi guglia di uffici, alta un miglio, di Tau Ceti Centro; la Basilica di S. Pietro si estendeva nell'ombra per più di 180 metri, era larga 135 nel punto in cui la "croce" del transetto intersecava la navata, ed era coperta dalla perfetta cupola di Michelangelo, che si alzava per almeno 120 metri sopra l'altare. Il baldacchino bronzeo del Bernini, tendone riccamente adorno sostenuto da colonne tortili bizantine, ricopriva l'altare maggiore e dava all'immenso spazio la dimensione umana necessaria alla prospettiva nelle cerimonie solenni che vi si celebravano. La tenue luce di lampade e di candele illuminava zone separate della basilica, brillava sul travertino liscio, metteva in rilievo i mosaici di oro e rendeva visibili gli infiniti particolari dipìnti, incastonati e scolpiti su pareti, colonne, cornici e la grandiosa cupola stessa. Il continuo bagliore di fulmini si riversava all'interno dalle gialle finestre istoriate, poste molto in alto, e mandava colonne di luce violenta a colpire di sbieco il "Trono di S. Pietro" del Bernini.

Mi fermai, appena al di là dell'abside, timoroso di profanare con i miei passi un simile ambiente, dove perfino il respiro avrebbe mandato echi per tutta la basilica. In un momento adattai gli occhi alla fioca luce, compensai il contrasto fra i lampi della tempesta in allo e le candele in basso, e allora mi resi conto che non c'erano banchi a riempire l'abside o la lunga navata, né colonne sotto la cupola, ma solo due poltrone accanto all'altare, a una quindicina di metri da me. Due uomini sedevano in quelle poltrone, vicinissimi, chini in avanti nella chiara urgenza di comunicare. La luce dei lumi e delle candele e il bagliore del grande mosaico di Cristo di fronte all'altare scuro illuminavano porzioni dei volti dei due uomini. Erano lutti e due anziani. Erano tutti e due preti, e l'ampia striscia del colletto rigido brillava nella penombra. Con un sobbalzo di sorpresa, mi accorsi che uno era monsignor Edouard.

L'altro era padre Paul Duré.

Sulle prime si saranno certo allarmali: la loro conversazione sottovoce era stata interrotta dalla comparsa di un uomo emerso dal buio, che li aveva chiamali per nome, che aveva gridato per lo stupore il nome di Duré, che aveva parlato confusamente di pellegrinaggi e di pellegrini, di Tombe del Tempo e dello Shrike, di IA e della morte degli dèi.

Il monsignore non chiamò gli agenti di sicurezza; né lui né Duré fuggirono; insieme calmarono quella apparizione, cercarono di spigolare un po' di senso dai suoi borbottii eccitati, e mutarono quel bizzarro confronto in conversazione razionale.

Era davvero Paul Duré. Paul Duré, e non un bizzarro doppelgänger, un duplicato androide, un rifacimento cìbrido. Me ne accertai ascoltandolo, interrogandolo, guardandolo negli occhi… ma soprattutto stringendogli la mano, toccandolo e intuendo che era davvero padre Paul Duré.

— Lei conosce particolari incredibili della mia vita… del nostro periodo su Hyperion, nella Valle delle Tombe… ma chi è, lei? — diceva Duré.

Toccò a me, convincerlo. — Un rifacimento di John Kcats. Un gemello della personalità che Brawne Lamia portava in sé nel pellegrinaggio.

— E lei era in grado di comunicare… di conoscere cosa ci è accaduto, grazie a questa personalità condivisa?

Mossi le mani in un gesto di frustrazione. — Grazie a questo… a chissà quale anomalia nella megasfera. Ma ho sognato la vostra vita, ho udito i racconti dei pellegrini, ho ascoltato padre Hoyt parlare della vita e della morte di Paul Duré… di lei! — Gli toccai il braccio, sotto l'abito talare. Trovarmi realmente nello stesso spazio e nello stesso tempo di uno dei pellegrini mi rendeva un po' confuso.

— Allora sa come sono giunto qui.

— No. Nell'ultimo sogno, lei entrava in una delle Grotte. C'era una luce. Dopo, non so niente.

Duré annuì. Il suo viso era più nobile e stanco di quanto i sogni non mi avessero mostrato. — Ma conosce la sorte degli altri?