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Sorrisi all'archivista. — E lei crede che "una mala bestia, venuta infine la sua ora / avanzi verso Betlemme per nascere"?

L'archivista non sorrise. — Sì, signore, ne sono convinto.

Mi alzai, passai davanti alle bacheche sottovuoto, senza guardare la mia scrittura su pergamena, vecchia di novecento anni. — Forse ha ragione — dissi. — Forse ha proprio ragione.

Era tardi; nel parcheggio c'erano solo i rottami della Vikken Scenic rubata e un VEM sedan riccamente ornato, senza dubbio costruito a mano su Vettore Rinascimento.

— Posso darle un passaggio, signore?

Aspirai l'aria fresca della notte, l'odore di pesce e di residui di petrolio che saliva dai canali. — No, grazie, mi teleporterò a casa.

L'archivista scosse la testa. — Potrebbe risultarle difficile, signore. Tutti i terminex pubblici sono sotto la legge marziale. Ci sono state… sommosse. — La parola riuscì chiaramente sgradita al piccolo archivista, un uomo che sembrava apprezzare l'ordine e la continuità più di tante altre cose. — Venga — disse. — Le darò un passaggio fino a un teleporter privato.

Lo guardai di sottecchi. In un'altra epoca, sulla Vecchia Terra, sarebbe stato il rettore di un monastero dedicato a salvare gli scarsi resti di un passato classico. Diedi un'occhiata al vecchio edificio degli archivi e mi resi conto che in pratica era proprio questa, la missione dell'ometto.

— Come si chiama? — domandai, anche se forse avrei dovuto sapere il nome perché l'altro cìbrido Keats lo sapeva.

— Ewdrad B. Tynar — disse. Batté le palpebre, nel vedere la mano tesa; poi la strinse. Una stretta decisa.

— Sono… Joseph Severn — mi presentai. Non potevo proprio dirgli di essere la reincarnazione tecnologica dell'uomo di cui avevo appena lasciato la cripta letteraria.

Il signor Tynar esitò solo una frazione di secondo, prima di annuire; ma capii che per uno studioso come lui il nome del pittore rimasto accanto a Keats fino alla morte del poeta non sarebbe stato un mascheramento.

— Notizie di Hyperion? — domandai.

— Hyperion? Ah, il protettorato dove qualche giorno fa si è recata la flotta spaziale. Be', ho sentito dire che ci sono state delle difficoltà per richiamare le navi da guerra necessarie. Laggiù i combattimenti sono stati davvero feroci. Su Hyperion, voglio dire. Che strano, pensavo proprio a Keats e al suo capolavoro mai terminato. È curioso come queste piccole coincidenze sembrino saltar fuori.

— È stato invaso? Hyperion?

Il signor Tynar si era fermato accanto al VEM; posò la mano sul lucchetto a impronta dalla parte del sedile di guida. Le portiere si sollevarono e si ripiegarono a fisarmonica all'interno. Mi calai nel profumo di sandalo e cuoio del vano passeggeri; la macchina di Tynar aveva il profumo degli archivi, il profumo di Tynar stesso, capii, mentre l'archivista si sistemava nel sedile di guida, accanto a me.

— A dire il vero non so se sia stato invaso — disse Tynar, chiudendo le portiere e attivando con un tocco il veicolo. Sotto il profumo di sandalo e cuoio, l'abitacolo aveva quell'odore tipico delle macchine nuove, polimero fresco e ozono, olio lubrificante ed energia, che da quasi un millennio ha sedotto gli uomini. — Oggi è difficile collegarsi in maniera adeguata — continuò. — La sfera dati è sovraccarica come non mai. Questo pomeriggio ho dovuto attendere, per una richiesta su Robinson Jeffers!

Ci alzammo sopra il canale, sorvolando proprio una piazza pubblica molto simile a quella dove avevo rischiato di essere ucciso, quella mattina; ci sistemammo in una via aerea inferiore, trecento metri al di sopra dei tetti. La città era graziosa, di notte: gran parte degli edifici antichi era sottolineata da bande luminose vecchia maniera e c'erano più lampioni stradali che ologrammi pubblicitari. Ma vedevo la folla venire avanti nelle vie laterali e velivoli militari della FAD di Vettore Rinascimento si libravano sulle vie principali e sulle piazze dei terminex. Al VEM di Tynar fu chiesta due volte l'identificazione, la prima dal controllo del traffico locale e la seconda da una voce umana con la sicurezza di sé tipica della FORCE.

Continuammo il volo.

— Gli archivi non hanno un teleporter? — domandai, guardando in lontananza, dove sembrava che ci fossero incendi.

— No. Non ce n'era bisogno. Abbiamo pochi visitatori e agli studiosi che vengono fin qui non importa di percorrere un paio d'isolati.

— Dove si trova, il teleporter privato che secondo lei potrei usare?

— Qui — disse l'archivista. Scendemmo dalla corsia di volo e girammo intorno a un edificio basso, non più di trenta piani; ci posammo sopra una flangia d'atterraggio estrusa proprio dove le flange periodo déco Glennon-Height spuntavano dalla pietra e dal plastacciaio. — Il mio ordine mantiene qui la residenza — disse.

— Appartengo a un ramo dimenticato della cristianità detto Cattolicesimo. — Parve imbarazzato. — Ma lei è uno studioso, signor Severn. Certo conoscerà la Chiesa dei tempi antichi.

— La conosco non solo dai libri — dissi. — Qui c'è un ordine ecclesiastico?

Tynar sorrise. — È un po' troppo, signor Severn. Siamo in otto, nell'ordine laico della Fratellanza Storica e Letteraria. Cinque sono di servizio alla Reichs University. Due sono storici che lavorano alla restaurazione dell'Abbazia di Lutzchendorf. Io mantengo gli archivi letterari. La Chiesa ha trovato meno costoso consentirci di vivere qui che teleportarci quotidianamente da Pacem.

Entrammo nell'alveare appartamento… antico anche per gli standard della Vecchia Rete: illuminazione incassata in corridoi di pietra vera, porte munite di cardini, un edificio che non ci chiese le generalità né ci diede il benvenuto quando entrammo. D'impulso, dissi:

— Vorrei teleportarmi su Pacem.

L'archivista parve sorpreso. — Stasera? Adesso?

— Perché no?

Scosse la testa. Capii che per lui la tariffa farcaster di cento marchi rappresentava la paga di alcune settimane.

— Il nostro edificio ha il suo portale — disse. — Da questa parte.

La scalinata era di pietra sbiadita e di ferro battuto corroso, con un pozzo di sessanta metri al centro. Da un punto imprecisato in fondo a un corridoio buio provenne il gemito di un neonato, seguito dalle grida di un uomo e dal pianto di una donna.

— Da quanto tempo vive qui, signor Tynar?

— Diciassette anni locali, signor Severn. Ah… trentadue standard, mi pare. Eccolo qui.

Il portale era antico come l'edificio, con l'intelaiatura di traslazione circondata da un bassorilievo dorato ormai verdastro e grigio.

— Stasera la Rete impone restrizioni di viaggio — disse Tynar. — Pacem dovrebbe essere raggiungibile. Rimangono circa duecento ore, prima che i barbari… in qualsiasi modo li si chiami… vi giungano. Il doppio del tempo che resta a Vettore Rinascimento. — Allungò la mano e mi prese il polso. Sentii la sua tensione, sotto forma di una lieve vibrazione attraverso tendine e osso. — Signor Severn, crede che bruceranno i miei archivi? Anche loro distruggeranno diecimila anni di pensiero? — Lasciò cadere la mano.

Non ero sicuro di chi fossero, "loro"… Gli Ouster? Sabotatori del Culto Shrike? Rivoltosi? Gladstone e i capi dell'Egemonia erano disposti a sacrificare i mondi minacciati dalla "prima ondata". — No — dissi, tendendo la mano per stringere la sua. — Non credo che permetteranno la distruzione degli archivi.

Il signor Ewdrad B. Tynar sorrise e indietreggiò di un passo, imbarazzato per l'emozione. Mi strinse la mano. — Buona fortuna, signor Severn. Dovunque i viaggi la portino.

— Dio la benedica, signor Tynar. — Non avevo mai usato quella frase e mi sorprese averla detta proprio in quel momento. Abbassai gli occhi, estrassi la carta di priorità datami da Gladstone e battei il codice di tre cifre di Pacem. Il portale si scusò, disse che al momento non era possibile; alla fine, con i suoi processori microcefali, capì che si trattava di una carta a priorità assoluta, emise un ronzio e si materializzò.